[TdF 2021] - Diverso da tutti gli altri

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Visto di profilo, Wout van Aert sul Mont Ventoux sembra uno speleologo. Gli occhiali che sporgono dalla parte anteriore del caschetto aggiungono alla sua sagoma la parvenza di una lampada frontale, come se il belga pedalasse nell’oscurità di una caverna e non nella luce biancastra del Gigante.

Il Ventoux, superato Chalet Reynard, è l’esatto contrario di una caverna, o al massimo è una caverna scomposta: come certi panini serviti con il ripieno distribuito intorno al piatto, la caverna del Ventoux ha i suoi elementi costitutivi – le pietre, miliardi di pietre calcaree – sparse tutt’intorno alla strada, così che, eliminata la possibilità di esplorare il luogo in cui ci si trova, già esposto in tutti i suoi dettagli, rimane a chi cerca l’avventura soltanto la possibilità di esplorare se stessi.

Ha scritto qualche anno fa Paul Fournel, scrittore e poeta, che sul Ventoux è te stesso che scali, perché il Ventoux ha totale consapevolezza non solo del tuo stato di forma, ma anche della tua capacità di essere felice in sella a una bicicletta, e felice in generale.

Il lanternino di Van Aert, per questa ragione, non punta davanti a sé. Non mira a farsi strada tra il pubblico rumoroso, e nemmeno sostiene la direzione dello sguardo del belga, costantemente proiettato verso l’alto. Piuttosto, è orientato verso il suo interno: ha lo scopo, questa luce immaginaria, di scandagliare una volta di più i limiti – se ce ne sono – del ciclista più versatile che è stato dato di ammirare alla nostra generazione.

Wout van Aert sul Ventoux è speleologo e caverna insieme. È una miniera di diamanti che scopriamo persino più profonda di quanto immaginassimo – di quanto egli stesso immaginasse. Un deposito di pepite da cui, il giorno dopo un secondo posto in una volata di gruppo, emerge luccicante il gioiello del doppio ammaestramento del Gigante, della vittoria da dominatore in una tappa di montagna, anzi della tappa della Montagna, di un Ventoux scopertosi incapace di piegare ai suoi voleri non solo la convinzione ma neanche lo stile di Van Aert, mai scomposto sui pedali, mai ancheggiante, la concentrazione sul suo volto scalfita soltanto dalla gioia finale, quando, a tappa vinta, si è sciolto in un sorriso a favore di telecamera, poi in un pugno agitato in aria.

Soggiogato da Van Aert, il Ventoux ha esatto da altri il consueto pedaggio di sofferenza e smorfie, la cui quota maggiore è andata suddivisa, come quasi sempre accade, tra chi per scelta o per necessità ricopre il ruolo della bestia da soma.

Degne di rilievo, per esempio, le mille facce di Julien Bernard, uno dei tre componenti della Trek-Segafredo presenti nella fuga vincente, che si è sfinito in favore dei compagni (Elissonde e Mollema, ottimi 2° e 3° al traguardo) ancor prima che iniziasse la seconda ascesa al Ventoux. Lingua penzoloni, le sue labbra si allargavano e si stringevano come nel tentativo di modulare frasi compiute che invece finivano per essere nulla più che primitivi suoni vocalici.

Come non accennare poi a Michał Kwiatkowski, grande habitué dell’autoannientamento, che al culmine dello sforzo, a pochi chilometri dalla vetta, si è prodotto in un occhiolino deformato, una sorta di commiato tanto buffo quanto eloquente.

Tutto lasciava presagire, in quel momento, un imminente tentativo di Richard Carapaz. Invece Carapaz – memore dei precedenti rimbalzi, o più probabilmente stremato a sua volta – ha temporeggiato qualche secondo, il tempo necessario a Jonas Vingegaard, l’ex vice-Roglič, per trovare il coraggio di attaccare per la prima volta in questo Tour de France.

Ed è allora che il ritmo imposto dalla Ineos per tutta la tappa ha prodotto un esito interessante, sebbene non quello desiderato in prima istanza dagli inglesi: il loro Carapaz non ha reagito alla sollecitazione del danese della Jumbo, ma a sorpresa anche Tadej Pogačar, dopo poche centinaia di metri, ha deciso che il ritmo di Vingegaard fosse ingestibile, dando il primo – per quanto minuscolo – segnale di debolezza del suo Tour altrimenti immacolato.

Nel corso della picchiata verso Malaucène, la maglia gialla ha recuperato, insieme a Carapaz e Urán, i 30-40 secondi di distacco accumulati da Vingegaard; infine, ha preceduto tutti nel mini sprint. Tuttavia la sua piccola incertezza di oggi («Sono un po’ esploso», ha detto nel post-tappa) è una sorta di ricompensa per la cocciutaggine della Ineos, giammai intimorita dalle responsabilità e dal rischio di farsi schernire dall’avversario, e, per quanto non rappresenti in alcun modo una riapertura del Tour in fatto di classifica generale, potrebbe rinfocolare la bellicosità dei contendenti al podio.

In conseguenza della giornata-no di O’Connor (che completa a buon diritto il podio delle boccacce di giornata), Rigoberto Urán è salito in seconda posizione, Carapaz in quarta. Terzo è Jonas Vingegaard, 24 anni. Che il novello capitano della Jumbo avesse un grande futuro davanti lo sapevamo già: più difficile prevedere che tale futuro potesse cominciare, in questo modo, già nel corso del presente Tour de France.

Nelle dieci tappe che restano, Vingegaard avrà dalla sua una forma stellare, un morale alto e, soprattutto, un compagno di squadra che è come il Mont Ventoux nella celebre definizione di Ferdi Kübler: diverso da tutti gli altri.

Dopo l’arrivo, Van Aert ha affermato che questa potrebbe essere la vittoria più bella della sua carriera. Della sua carrierafinora, aggiungiamo noi con le nostre piccole lampade intorno alla fronte, avidi di conoscere cosa ancora ci riserva la sua miniera delle meraviglie.

 

A cura di Leonardo Piccione. Tutti gli articoli sul Tour de France 2021 sono disponibili all'interno della raccolta "Mai burlarsi di un drago vivo", qui.

 

 

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