[TdF2022] Hugo, nessuno e centomila

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Simile a una buona lettura, il Tour de France è un pretesto per vivere altre vite.

Tre settimane e oltre centosettanta traiettorie umane, una diversa dall’altra, che s’incrociano tra di esse e in qualche preziosa occasione con le nostre, col nostro desiderio di immedesimarci ora con lo scalatore leggiadro ora col passista poderoso, un giorno con lo scattista impaziente e quello dopo col freddo calcolatore, perché non siamo nessuno di loro ma siamo tutti loro, siamo un mosaico imperfetto e i ciclisti – ciascuno con la sua qualità o difetto dominante – ci appaiono versioni drammatizzate di noi stessi, non necessariamente migliori ma di sicuro più vivide, estreme in certi aspetti, nostri alter ego capaci di veleggiare sulle pietre sconnesse e conquistare le montagne, di raggiungere vette che non sappiamo raggiungere e realizzare sogni che non possiamo realizzare – e subito dopo di perdersi, straordinariamente naufragare.

Sta qui parte della magia che emana da ogni corsa, dal flusso incontrollabile di storie e personaggi che tutte le estati ci raggiunge dalle strade di Francia, tra una montée e uno château, e come molti ragazzi della loro età, come tanti appassionati in ogni angolo del mondo, anche i fratelli Hugo e Pierrik Houle erano eccitati quando iniziava il Tour.

Non c’era molto altro da fare nelle mattine di luglio a Sainte-Perpétue, Québec, non lontano dal confine col Maine. I fratelli Houle – Hugo tre anni più grande di Pierrik – si piazzavano davanti alla tv e si divertivano a scegliere il proprio preferito tra i protagonisti delle lunghe fughe, per lo più disperate, che animavano la grande corsa di biciclette al di là dell’Atlantico.

Il ciclismo, all’epoca, era solo una parte dei loro hobby: un terzo ad essere precisi, gli altri due essendo corsa e nuoto. Facevano triathlon. Avevano cominciato insieme, Hugo a dodici e Pierrik a nove anni. Pierrik all’inizio era il più rapido dei due, poi la differenza d’età aveva giocato a favore di Hugo, che nel volgere di poco era diventato più veloce e resistente, soprattutto in bici. Pedalava così forte che a un certo punto decise di concentrarsi esclusivamente sulle due ruote. Anche Pierrik passò al ciclismo, più per imitazione del fratello che per vocazione, difatti scelse presto di dedicarsi a uno sport che prometteva di combinarsi meglio con la sua grande timidezza, il football.

Nel 2010, mentre in parallelo agli allenamenti aveva intrapreso il percorso per diventare poliziotto, Hugo decise ventenne di mettere tutto il resto in pausa e dare una possibilità concreta al ciclismo. L’anno dopo passò professionista con una piccola squadra canadese, primo passo verso l’inimmaginabile approdo: Hugo Houle era sul punto di diventare uno dei protagonisti del passatempo preferito delle sue estati di bambino. Stava per cominciare il suo grande viaggio verso l’Europa, verso il grande ciclismo.

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Testo: Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

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