[LetteraTour, Tappa 21] L'insostenibile leggerezza del Tour

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

 

Il resoconto dell'ultima tappa del Tour de France 2023, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti si possono leggere registrandosi qui, o nella raccolta cartacea e digitale che presto li raccoglierà tutti. 

 

Esattamente come i personaggi del romanzo più famoso di Milan Kundera, i corridori del Tour de France sono le nostre proprie possibilità che non si sono realizzate: «Per questo vogliamo bene a tutti allo stesso modo e tutti allo stesso modo ci spaventano: ciascuno di essi ha superato un confine che noi abbiamo solo aggirato». È questo confine che ci attrae: al di là di esso incomincia il mistero sul quale il romanzo – cioè il Tour de France – si interroga.

Il confine dei corridori del Tour è un confine di sopportazione psicofisica oltrepassato da ognuno di essi in un punto inconosciuto a priori, una soglia invisibile piazzata in uno qualsiasi degli oltre 3400 chilometri di gara oltre la quale il concetto di stanchezza assume sfumature inimmaginabili per noi. Per questo il giorno dei Campi Elisi è per tutti loro traguardo mitologico, Parigi il regno fiorito dove approdano anima e corpo al termine delle tre settimane più estenuanti dell’anno. Non ce n’è uno tra i centocinquanta arrivati stasera nella Ville Lumière che non sia fiero del risultato ottenuto.

Certamente lo è Micheal Mørkøv della Soudal, la lanterne rouge dell’edizione 2023, che ha accumulato gran parte delle sue oltre sei ore di ritardo da Vingegaard salvando ogni volta che ha potuto il claudicante Fabio Jakobsen dalla mannaia del tempo massimo: beati i misericordiosi.

È sorridente Adrien Petit dell’Intermarché, 143°, che ha corso l’ultima settimana con un taglio di dieci centimetri su una natica ed è andato avanti soprattutto per amore dei tifosi che l’applaudivano. Una posizione davanti a lui, 142°, è arrivato Axel Zingle della Cofidis, esordiente, che era partito da Bilbao con le credenziali di possibile rivelazione e invece è finito contro le barriere sul circuito di Nogaro, quarta tappa, e da allora si è arrabattato come ha potuto. Resta sua la descrizione più accurata di Tour de France udita in queste settimane: un grande casinò che se ti va bene può cambiarti la vita.

Nella categoria dei beati in quanto afflitti si sono inseriti ieri pomeriggio anche Carlos Rodríguez della Ineos e Sepp Kuss della Jumbo, entrambi scivolati sui Vosgi e bendati a Parigi: se Rodríguez è riuscito a difendere il suo notevole piazzamento in top-five (5°), Kuss ha perso il suo in top-ten (da 9° a 12°). Quel che l’americano non ha perso affatto è il tocco da Re Mida delle corse di tre settimane: negli undici grandi giri che ha corso finora in carriera, in nove occasioni uno dei suoi compagni di squadra ha concluso sul podio, sei volte sul gradino più alto.

Al 141° posto troviamo Elmar Reinders della Jayco, che fino a pochi anni fa era impiegato in un negozio di biciclette ad Assen: vendeva pezzi di ricambio, faceva riparazioni e preparava il caffè. Ancora a inizio 2022 correva in una squadra Continental, il terzo livello del ciclismo professionistico, poi ha vinto cinque corse in poco tempo e Groenewegen l’ha voluto con sé: oggi, a 31 anni e mezzo, ha portato a termine il suo primo Tour de France, lavorando nell’ombra per il suo velocista.

Sollevato, più che felice, il 127° in classifica, un Peter Sagan più che crepuscolare, che ha corso la sua ultima Grande Boucle della carriera da special guest, guidato nella visita da uno Spirito dei Tour Passati che gli ricordava che un tempo quel regno era suo. Lui però ci teneva davvero ad esserci perché, ha spiegato, il Tour gli ha cambiato la vita: ed è vero anche che lui ha cambiato il Tour, che è stato Sagan il prototipo dei ciclisti totali che hanno ereditato la terra.

Ha buone ragioni per essere compiaciuto del suo Tour Egan Bernal, 36°, che in cuor nostro speravamo fosse più avanti nel campo minato del ritorno ai suoi livelli e che tuttavia era sempre lì a tener duro, a tirare, trasportar borracce ed attendere i capitani in crisi; a ritrovare tono e confidenza, e rimettere le cose in prospettiva: «Penso che dovrei innanzitutto essere riconoscente di essere ancora in vita».

Quattro posizioni più in alto, Giulio Ciccone e il suo gran Tour a pois: puntuale, brioso, energico, ha avuto il merito – e il coraggio – di contendere la classifica degli scalatori ai grandi della generale, ridandole linfa dopo anni: mica poco. Pochi sussulti, al contrario, dalla classifica della maglia verde, che Jasper Philipsen ha dominato in lungo e in largo. Non ha dominato l’ultima volata, in cui si è fatto sorprendere al fotofinish dal colpo di reni di Jordi Meeus della Bora, altro esordiente, mai tra i primi cinque nelle tappe dalla 1 alla 21 ma più veloce di tutti alla fine della 21, nella volata svolta-carriera, coda inattesa ma calzante di un Tour la cui sceneggiatura certo non ha difettato di scene madri.

Al centro della maggior parte di esse ci sono stati, ça va sans dire, Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar: non era mai successo prima nella storia del Tour che la stessa coppia di corridori monopolizzasse per tre edizioni consecutive le prime due posizioni della classifica generale. La tendenza iniziata il luglio scorso (o forse sul Mont Ventoux nel 2021?) non s’è però invertita: nonostante il fantasmagorico equilibrio delle prime due settimane, ha vinto di nuovo Vingegaard, con un margine superiore rispetto a un anno fa e soprattutto compiendo un ulteriore balzo in termini di solidità e fiducia nei propri mezzi.

Ancor più che i sette minuti e mezzo rifilati al miglior ciclista al mondo (definizione del danese), impressiona l’evoluzione caratteriale di un ragazzo che nella seconda tappa della Ruta del Sol del 2019, la prima corsa a tappe della sua carriera professionistica, si staccò dal gruppo principale per il troppo stress, e che pochi mesi dopo, primo in classifica al Giro di Polonia, andò in crisi per la pressione che gli metteva la maglia di leader. A quattro stagioni di distanza, quella più pesante del mondo gli infonde una sconfinata sicurezza.

Quest’anno l’ha cercata immediatamente la maglia gialla, già sui Pirenei, a metà della prima settimana, in un progetto tattico che è stata un’impeccabile alternanza di aggressività e controllo. Vingegaard non ha commesso il minimo errore, e questo suo impetuoso processo di miglioramento, che produce picchi vertiginosi come la cronometro di Combloux, contiene degli elementi di profondo fascino sportivo e umano. Il fatto che i tormenti attraverso cui è passata la sua crescita si siano manifestati per lo più lontano dai riflettori non può essere una colpa: è un prodigio, Jonas Vingegaard.

Resta il fatto che la perfezione non è il più potente dei magneti d’amore, lui non è il più abile dei comunicatori («Non sono quello che urla più forte», dice) e come avversario si ritrova la simpatia fatta campione, un personaggio di imbarazzante amabilità, fantasioso, affabile e colorato, a cui è oggettivamente complicato non voler bene.

Tadej Pogačar è stato protagonista anche oggi, un paio di azioni nel circuito parigino, poco più che simboliche, che però nella loro inusualità rimarcavano efficacemente l’abisso comportamentale che esiste tra i Rivali. Saremmo tentati di azzardare, richiamando in causa Kundera, che uno sia araldo della leggerezza e l’altro della pesantezza, ma è una semplificazione che ci priva del gusto delle sfumature.

Pogačar ha attaccato letteralmente dal primo all’ultimo giorno, eppure ha perso di netto. Dal suo team sostengono che sia solo colpa dell’anomala preparazione di quest’anno; i tecnici di Vingegaard ribattono che sia stata di nuovo la strategia della Jumbo a mandarlo in crisi. La palla adesso è nel campo dello sloveno, che, innata bonomia a parte, non è indifferente alle sconfitte. Dopo il crollo sul Col de Loze ha scritto in un post che adesso sa «come ci si sente a far fatica in salita». L’intensità quasi rabbiosa dell’esultanza sul traguardo del Markstein è un'altra dimostrazione del carico psicologico cui anche lo sloveno è sottoposto. Come nelle migliori dualità della storia dello sport, quella Vingegaard-Pogačar induce entrambi i contendenti a superarsi, a cercare di sbloccare una versione sempre migliore di sé stessi. Noi, che ci troviamo nel mezzo di questa bonanza ciclistica, gongoliamo.

Gongoliamo e attendiamo l’uscita dei prossimi episodi: forse succederà alla Vuelta, che Vingegaard ha annunciato di correre (ma Pogačar per il momento no). Magari avverrà in un paio di classiche, o in qualche gara di una settimana. Più probabilmente toccherà aspettare il Tour numero 111, il prossimo luglio, le solite tre settimane dentro un mondo fuori dal mondo, uno in cui ci sentiamo sicuri, al riparo dalle angherie degli uomini, un mondo in cui la cosa più importante ogni mattina è provare a immaginare cosa accadrà, chi ci somiglierà di più, chi incendierà e chi vincerà questa corsa che in fin dei conti, non diversamente dalla storia, «è leggera al pari delle singole vite umane, insostenibilmente leggera, leggera come una piuma, come la polvere che turbina nell'aria, come qualcosa che domani non ci sarà più.»

 

Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

 

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