Ancora in cammino - Intervista a Jacopo Guarnieri

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Quando ho telefonato a Jacopo Guarnieri, nel pomeriggio di mercoledì 13 ottobre, mi trovavo nella panetteria di Húsavík, Islanda, la cittadina in cui trascorro buona parte dell'anno. Anche a Jacopo non sarebbe dispiaciuto trovarsi in Islanda, ma lui in quel momento era poco fuori Piacenza, alla guida della sua auto, alla vigilia di tre giorni particolarmente intensi.

Prima destinazione: Besançon, sede scelta dalla Groupama-FDJ per l'ultimo ritiro della stagione. «O il primo della prossima», come mi ha detto. «Una cosa di tutti gli anni. Facciamo un sunto della stagione appena finita, scambiamo le biciclette vecchie con le nuove, visite mediche e foto di squadra. Tutto condensato in un giorno e mezzo».

Dopodiché, venerdì, il ritorno in Italia: sabato mattina sarà al Salone del Libro di Torino, dove converserà di ciclismo insieme al giornalista Andrea Schiavon, autore de Il nostro Bartali. Non è la prima volta che Guarnieri è ospite di una manifestazione letteraria, avendo già preso parte nel 2020 al Festivaletteratura di Mantova. «Riesco a coniugare i verbi correttamente, forse mi chiamano per quello», si è schernito.

In realtà lo chiamano perché - oltre a coniugare i verbi correttamente - Guarnieri è uno dei ciclisti italiani più rappresentativi e un uomo con cui si può parlare virtualmente di tutto. Ha molte cose da dire, Jacopo, e un po' me le ha dette nella chiacchierata che segue.

 

 

LP: Ciao Jacopo, e grazie. Sai già che sarà una telefonata lunga, giusto?

JG: Figurati, mi fai compagnia. Ho sei ore di macchina davanti... 

Come mai viaggi in macchina?

Perché Besançon è scomodissima da raggiungere con gli altri mezzi, aereo compreso. Alla fine ci metto meno in auto. Sono due anni che ho detto alla squadra "Guardate, datemi gli orari e ci vediamo direttamente lì". In più, io adoro guidare.

Immagino guidare sia tra le ragioni per cui ti piace così tanto l'Islanda...

Per la verità la prima volta che sono stato in Islanda non ho guidato. L'amico che avrebbe dovuto viaggiare insieme a me ebbe un problema all'ultimo minuto, così venni su tutto solo. La scusa, diciamo così, era il festival Airwaves, che si tiene a Reykjavík. Quella volta più che altro visitai la città e feci qualche giro dei dintorni in autobus, una settimana in tutto. Era il 2012 o il 2013, non ricordo di preciso.

Poi però sei tornato.

Sì, nel 2016. Una vacanza organizzata da tempo e poi diventata il mio viaggio di nozze. Fu bellissimo. Girammo tutta l'isola tranne i Fiordi Occidentali, che purtroppo dovemmo tagliare.

Posto preferito?

Intanto Seyðisfjörður, il villaggio dove arrivano i traghetti dalla Danimarca, con le sue installazioni artistiche. Poi ricordo bene anche la costa sud, soprattutto il vento che tirava mentre guidavo lungo la costa sud. Ho pensato che potesse cadermi tutto in testa da un momento all’altro. E poi un'avventura particolare, quella che ricordo meglio di tutte...

Ti sei perso tra i vulcani?

Quasi. Un giorno stavo cercando una delle piscine islandesi calde, che tu conosci bene. Ne trovai una sulla mappa e pensai “dai, è sulla strada, allunghiamo…” Guidavo un Jimny, che secondo me è la macchina più bella del mondo. A un certo punto la strada diventa sterrata. Cominciamo a risalire questo fiordo, guidiamo guidiamo guidiamo, non finisce più. Dopo tipo cento chilometri di sterrato arriviamo a un cancello, chiuso. Mentre cerco di capire cosa fare, arriva una macchina in senso contrario. Le due ragazze all'interno mi dicono che la piscina è in fondo alla strada. Al che io chiedo “Ma si può andare?”. E loro: “Sì, si può, apri il cancello e vai”.

Tutto molto islandese, confermo.

Dicono così, senza aggiungere altro. Quando arriviamo in fondo alla strada, scopro che le due ragazze erano le proprietarie del posto. Lo spogliatoio era dentro una capannetta. Ti cambi, fai un’offerta, poi entri in questa piscina fantastica. Ci sei tu, un piccolo muretto in pietra e il vento. Indimenticabile.

Sei un grande conoscitore di musica, quindi devo chiedertelo: Björk o Sigur Rós?

Sigur Rós, certo. Björk non mi è mai piaciuta più di tanto. Al massimo ascolto un paio di canzoni, ma un album intero faccio fatica. I miei preferiti però sono i Múm. Più elettronici dei Sigur Rós, anche se negli anni si sono dati molto alla folktronica. I primi due album sono bellissimi, soprattutto Finally we are no one, il secondo, copertina verde. L’hanno registrato usando speaker impermeabili: hanno infilato questi speaker in una piscina e hanno registrato i suoni che uscivano dall'acqua. Te lo consiglio, è stupendo. 

Lo ascolto stasera, in piscina.

Poi c'è almeno un'altra cosa che amo dell'Islanda.

Sarebbe?

Il freddo. Sono sempre stato appassionato di posti freddi, alle superiori mi prendevano per il culo per questo. Il massimo della vita per me era andare in Norvegia, o al tempo anche in Belgio o Olanda per le corse da juniores. Ero contento.
 



Posso solo immaginare la tua sofferenza alla scorsa Vuelta, dalla quale ti sei ritirato per un colpo di calore...

Dal terzo giorno in poi ho sofferto da matti. Il giorno che sono andato a casa, la nona tappa, mi sono sentito un gioiellino per i primi sessanta chilometri, poi però ai piedi della salita è uscito il sole, quaranta gradi o qualcosa del genere. Improvvisamente ero un masso in mezzo a una strada. Finito, morto. Mi sono spaventato: battiti alti, giramenti di testa...

Non è stato l'unico inconveniente di questo 2021, che per molti sportivi italiani sarà un anno da ricordare ma per te direi proprio di no.

È stato un anno di sfighe. Non ho avuto un singolo infortunio serio, ma ogni tre per due me n’è capitata una. Un piccolo problema di ernia, una caduta in allenamento, a Castell'Arquato fa un metro di neve e non riesco ad allenarmi… È stato tutto complicato, e a lungo andare i frutti di una preparazione così si sono visti.

Sempre alla nona tappa, ma del Tour, sei arrivato fuori tempo massimo.

Ai piedi della salita di Tignes eravamo io e Arnaud. Arriva il direttore e dice: "I primi sono arrivati, avete 38 minuti per fare la salita". Venti chilometri di salita in 38 minuti. Lo guardo con due occhi… Lì ho pensato: è finita.

È stato il secondo O.T.L. della tua carriera. Come ci si sente a essere mandati a casa per essere andati troppo piano?

Sul momento sei solo deluso, poi all’arrivo è anche peggio. Ti senti in difetto nei confronti degli altri. Non solo i compagni di squadra, ma anche gli addetti stampa e l’organizzazione. Ti senti di aver rubato qualcosa, pensi di non c’entrare nulla col ciclismo. È brutto, molto brutto. Dopo l'arrivo, a Tignes, non volevo parlare con nessuno. È venuto il mio massaggiatore a mostrarmi la strada per l’hotel. Quando in ascensore siamo rimasti solo io e lui, sono scoppiato a piangere.

Entrambe le volte fuori tempo massimo insieme a te è finito il tuo capitano, Démare.

Ho riflettuto a lungo con Arnaud su questa cosa del tempo massimo. Dopo tanto tempo insieme siamo legati, non solo sportivamente. Se io finisco entro il tempo massimo e lui no, il mio Tour è finito comunque. La mia corsa finisce quando finisce quella di Arnaud.

E Guarnieri vince quando vince Démare.

Diciamo che in carriera ho costruito la mia fortuna con le vittorie degli altri, anche se poi io sull’albo d’oro non ci sono. 

Quest'anno hai "festeggiato" dieci anni dalla tua ultima vittoria da professionista. Come la vivi?

Non la vivo male, anche se dieci anni sono tanti… Però sai, quest'anno ha smesso Fabio Sabatini, grande ultimo uomo, che non ha mai vinto. Il ciclismo è un grande sport di squadra. E ProCyclingStats ti dice chi è il leader migliore, ma non chi è il gregario migliore.

Ci pensi ancora a vincere una corsa in prima persona o ormai te la sei messa via?

Direi che me la son messa via. Ci vorrebbe un treno perfetto per me, un certo arrivo con certe curve, magari un compagno che mi fa un buco… Non è impossibile, ma è molto difficile. Se un giorno partissimo al mattino dicendo "Oggi corriamo per Jacopo e Jacopo vince"... mmh, non la vedrei così realizzabile, ad essere sincero. Forse lancerei la volata già ai quattrocento dall'arrivo.

Cosa ti piace del tuo capitano? 

Ammiro molto la sua tenacia. Prendi quest'anno, difficilissimo. Un giorno lui andava e mancavamo noi del treno, un giorno c’eravamo noi e mancava lui. Non siamo mai stati tutti nello stesso momento nelle condizioni giuste. Io mi sono fermato prima delle ultime corse perché avevo capito che quest’anno c’era poco da fare, lui invece ha voluto insistere. Insomma tre giorni fa alla Parigi-Tours, l’ultima corsa della stagione, ha fatto il disastro. Ha attaccato lui, ha rotto il gruppo insieme alla squadra, ha attaccato ancora, spavaldo. Poi ha vinto con una volata di 300 metri. Ha tirato fuori le palle, le ha messe sul tavolo e ha detto "Io sono Arnaud Démare". Forse non ha risollevato la stagione, ma ha dato morale a tutti, anche a me da casa. Questo vuol dire essere caparbi, crederci sempre. Inoltre, è una bravissima persona.
 



Numerosi corridori francesi danno l'idea di essere persone interessanti. Idealisti, romantici, romanzeschi. Sempre con una storia da raccontare. Perché è così, secondo te?

Provo a ipotizzare. Può c'entrare il fatto che in Francia le squadre di ciclismo sono società come le altre, non società sportive. Noi corridori siamo dipendenti di queste società. Anche la gestione delle pensioni, per fare un esempio, è gestita come in altri settori. Credo questo contribuisca a rendere i ciclisti francesi meno superstar, più normali. Non credo abbiano in assoluto più storie degli altri da raccontare, però le raccontano, senza farsi nessun tipo di problema. Parlo dei miei compagni di squadra, almeno.

Nella tua squadra c'è forse il paradigma supremo di questo tipo di corridori francesi "letterari", Pinot.

Thibaut, e anche Arnaud, sono gli antidivi per eccellenza. Thibaut ha le caprette, Arnaud cura l’orto. Semplificando, si sentono prima persone che campioni.

Inversamente proporzionale alla tua fortuna su strada è stata quest'anno la tua fortuna mediatica, se vogliamo. Ho letto un paio di articoli veramente belli su di te, usciti entrambi durante il Tour. Il primo su VeloNews, dedicato al rapporto tra te e tua figlia Adelaide. In uno degli aneddoti più simpatici racconti che quando siete in giro insieme e lei vede passare un ciclista ti chiede: "Papà, è un tuo amico?". Al che tu rispondi: "Certo che è un mio amico".

Te ne racconto un'altra. Ultimamente si è lamentata un paio di volte del fatto che io non vinco. Poi qualche giorno fa sono arrivate a casa un po’ di stampe di foto del Giro 2020 e c’era questa qui in cui io sto con le braccia alzate e le dita al cielo. Il motivo era che eravamo passati tra i tifosi di Simon Guglielmi, mio compagno di squadra, ma lei ovviamente non lo sapeva. Così mi ha chiesto "Hai vinto, qua?" E io ho risposto: "Sì, qua ho vinto". Insomma per tre giorni diceva a tutti che suo papà aveva vinto. Per fortuna quelli a cui l’ha raccontato non seguono il ciclismo, altrimenti avrebbero detto "Questo qua racconta un mucchio di cazzate pur di far bella figura…"

Adelaide ha quattro anni. Cosa ti preoccupa di più del mondo in cui crescerà? 

La prima cosa che mi mette angoscia è la situazione climatica. Le deadline che abbiamo. Leggere cose come "Nel 2030 succederà questo", "Nel 2050 succederà quest’altro"… Nel 2050 mia figlia avrà trentatré anni, sarà più giovane di me adesso. Questo mi spaventa: se ne parla tanto ma restano parole. In più lei, da donna, dovrà interfacciarsi con una serie di pregiudizi che ancora esistono. Mi sono messo molto in discussione, da quando c'è lei.

In che modo?

Non sono mai stato maschilista, ma mi sono accorto di avere degli atteggiamenti o dei pensieri che potevano essere ricondotti a quella sfera lì. Certe battute, anche non fatte con cattive intenzioni, che una volta mi avrebbero fatto ridere, oggi mi danno fastidio. Mi sarebbe piaciuto essere migliore prima, e anche adesso non sono il femminista perfetto. Ma ci provo.

L'altro articolo dedicato a te è uscito per Cycling Weekly e partiva dal fatto nella tua bio su Twitter campeggia una bandiera arcobaleno. Il titolo del pezzo era un tuo virgolettato: "Il primo ciclista apertamente LGBTQ+ avrà il mio supporto".

Sì, spero arrivi presto il momento quando fare domande sulla sessualità di una persona suonerà strano come chiedere, come prima domanda in un'intervista, che gusto di gelato ti piace. Mi sono piaciute molto le dichiarazioni di qualche tempo fa di Paola Egonu: «Quello che deve interessare è se gioco bene a volley, non con chi dormo».

Com'è messo il ciclismo da questo punto di vista?

Difficile da dire. I ventenni di oggi, non tutti e con ovvie differenze, sono più aperti. Ci sono dei concetti, come ad esempio quello di sessualità liquida, che la nostra generazione sta imparando adesso, ma con cui loro stanno crescendo. E questo è bello. Il problema è che c'è una grande differenza tra gli atleti, i ciclisti, che sono giovani e aperti, e i componenti degli staff, del management, che sono, di base, vecchi. Mi domando se complessivamente è un ambiente in cui un ciclista può parlare serenamente della propria sessualità...

Hai mai avuto contrasti a causa delle tue idee, nel mondo del ciclismo?

No, anche perché non ho cambiato tante squadre. In un paio di occasioni, quando ho toccato l’argomento dell’omosessualità, Marc Madiot mi ha chiamato per farmi i complimenti per quello che avevo detto. Negli ultimi anni ho cominciato a parlare molto di più, e lui è sempre contento delle cose che dico, di come mi rapporto coi media. D’altra parte mi domando: come puoi condannare qualcuno che cerca di essere inclusivo? Puoi condannare qualcuno che esclude, al massimo. Poi, non so, magari certe squadre hanno dietro sponsor che potrebbero avere qualcosa da ridire se parli troppo di inquinamento o di diritti. Ma nella mia mi sento completamente libero di dire quello che penso.
 



Quando da qui a vent'anni smetterai di correre, lascerai un gruppo migliorato o peggiorato?

Come dicevo prima, è innegabile che l'apertura mentale dei giovani sia positiva. Ma da altri punti di vista credo che le cose siano peggiorate. Il ciclismo è diventato talmente veloce e stressante che è difficile creare legami, o addirittura amicizie. Nel gruppo degli italiani questa cosa ce l'abbiamo ancora, siamo legati e si vede, ma altrove non è così. Ogni corsa è al centomila per cento, non c'è spazio per altro. Poi arriva il Pogačar di turno e se tu a 25 anni non hai ancora vinto non vali nulla. Se i primi due anni non sei andato bene, ciao. Invece magari hai solo bisogno di tempo. Spero di sbagliarmi, ma le cose temo stiano andando sempre più in questa direzione.

E tu, sei migliorato o peggiorato?

Innanzitutto sono invecchiato (ride). Quelli come me e te, dell'87, cominciano a essere proprio vecchi. Quando Jake Stewart mi ha detto che è del ‘99 volevo morire. Uno del ’99 che va forte e ti fa il culo in bicicletta, pensa un po'. A parte questo, credo di essere migliorato in molte cose, sia a livello personale che come atleta. Su altre cose invece sono più testardo di prima. In definitiva mi sento ancora in cammino, ogni anno mi ritrovo diverso dall’anno precedente, e mi piace. Il bello dello sport è che hai quasi sempre una seconda chance, la possibilità di rimetterti in gioco.

Far fatica ti piace ancora?

Molto più piacevole adesso di quando avevo 22 anni.

Per finire torno alla tua bio Twitter. Prima della bandiera arcobaleno c'è un'autodescrizione sintetica ma un po' vaga: "Pro cyclist e altro". Cosa include quell'altro? Lo scopriremo dopo che avrai smesso di correre?

Non lo so ancora cosa diventerà quell'altro. Mi piacciono molte cose. Leggere, parlare davanti a un pubblico. Da un lato penso che rimanere nel mondo del ciclismo, come giornalista magari, o presentatore, potrebbe essere interessante. Dall’altro c’è una voce che mi dice "Buttati e fai un salto nel vuoto". Tra le idee che ho in testa ce n'è una che potrebbe portarmi a ricominciare completamente da zero, lontano dal ciclismo. Potrebbe essere una sfida interessante, ma avrò il coraggio di fare davvero un salto così? Non lo so quale voce prenderà il sopravvento quando sarà il momento. Un po’ di idee ce le ho, vediamo.

Una di queste è trasferirti in Islanda?

(ride) Non adesso. Essendo divorziato, voglio stare vicino a mia figlia più che posso, per il suo bene. Magari quando lei andrà via di casa potrò pensare di trasferirmi.

Però intanto almeno un altro viaggetto potresti fartelo...

Ah, quello è sicuro. Finché faccio il ciclista posso venire soltanto a ottobre, quando in Islanda ci sono già troppe strade chiuse. Invece io vorrei avere la possibilità di andare dappertutto. Appena smetto vengo a girare l'isola in moto.

A luglio magari: anziché il Tour de France, il giro dell’Islanda in motocicletta.

Tutta un’altra cosa, eh?
 



Intervista a cura di Leonardo Piccione. Foto: Equipe cycliste Groupama-FDJ.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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