La cura

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Una delle sequenze emotivamente più intense di quest'estate di ciclismo comincia pochi metri dopo la linea d’arrivo della settima tappa della Vuelta 2022, a Cistierna: Jesús Herrada López, trentaduenne della Cofidis, ha appena battuto in volata Samuele Battistella e gli altri tre compagni d’avventura. Il gruppo è stato messo nel sacco dai fuggitivi, come si dice in questi casi, ed è di per sé un’ottima premessa. 

Nella gestualità di Herrada, a inizio video, vi è ancora un residuo dell’esultanza che sul traguardo le telecamere fisse hanno inquadrato frontalmente, in tutta la sua prorompenza, e che qui invece è proposta di lato, mentre già sfuma nella peculiare desolazione di certi post-tappa. 

Nel fotogramma successivo, Herrada è completamente solo. L’invariabile rumorosità delle zone d’arrivo è distante poche centinaia di metri, ma sembrano anni luce. Come spesso accade nel ciclismo, il trionfatore non è atteso dalla celebrazione istantanea dei tifosi, né dall’improrogabile abbraccio dei compagni di squadra: anche dopo aver vinto, come nella gran parte delle circostanze tipiche di questo suo sport, la prima persona con cui deve fare conti un ciclista è sé stesso.

Herrada ha fermato la sua bici vicino a uno spartitraffico, al centro del quale uno spettatore armeggia con lo smartphone, più preso dallo schermo che dall’arrivo nei suoi pressi del vincitore di giornata.

È un addetto alla sicurezza il primo ad avvicinarsi timidamente a Herrada, che intanto ha poggiato il capo sul polso sinistro, a sua volta poggiato sul destro, a sua volta poggiato sul manubrio, ed è scoppiato in lacrime. Un pianto sonoro, incalzante, amplificato dal silenzio irreale in cui è immersa la scena, il solo elicottero della tv a segnalare in sottofondo la natura tutt’altro che privata dell’evento in corso.

Passano alcuni secondi. Arriva un operatore video, al galoppo; poi un giovanotto dell’organizzazione, celere nel tenere a distanza il solito accrocchio di giornalisti e fotografi. Ancora un attimo e alle spalle del ciclista spunta il primo volto a lui noto, la persona che con la sua sconfinata premura ha rinfocolato il pianto di Herrada e propiziato il mio, inducendomi a buttar giù queste righe in forma di riconoscenza.

L’uomo che si getta al collo di Herrada, sbaciucchiandolo ripetutamente su una guancia, battendogli le mani, sorridendo come si sorride a un figlio o a un fratello tornato da lontano è francese e si chiama Raoul Lopes. Non essendo al seguito della Vuelta, per scoprire le sue generalità ho dovuto rifugiarmi su Twitter, dove i primi a riconoscerlo nel video diffuso dall’account ufficiale della corsa spagnola sono stati due ‘suoi’ ex atleti.

João Correia, un passato alla Cervélo, ha scritto che «chiunque merita un massaggiatore come Raoul», mentre Rory Sutherland, professionista fino a due stagioni fa, ha raccontato che immediatamente dopo il traguardo, pregustando la gioia di quel suo indimenticato massaggiatore, aveva detto ai figli davanti alla tv di «tenere d’occhio Raoul».

Il sito della Cofidis definisce Lopes come “assistente fisioterapista”, ma la categoria di imprescindibili figure di cui egli è eccezionale ambasciatore viene meglio descritta dal sostantivo francese soigneurs.

Nel ciclismo i soigneurs, resi in lingua italiana col riduttivo “massaggiatori”, si occupano molto più che di massaggi: sono meravigliosi tuttofare, responsabili dei rifornimenti, del vestiario, del trasporto dei materiali, di assistenza individuale ai corridori (nella buona e nella cattiva sorte) e generale alla squadra, e di una serie virtualmente infinita di altre mansioni piccole e grandi.

Tutto ciò, per intenderci, che può rientrare nella definizione del verbo soigner, che alla lettera vuol dire “curare”, ma che nei fatti corrisponde a un intreccio di competenze tecniche e umane più uniche che rare nello sport professionistico.

Ci sono l’afflato del guaritore, l'attenzione del custode, la solennità dell’affidatario nell'accortezza con cui Lopes – più sorridente di lui, provato almeno quanto lui (qualcuno l’ha visto correre con le braccia al cielo mentre, saltando di gioia, raggiungeva Herrada) – si accovaccia accanto al ciclista e cerca di indovinare la sua necessità primaria, che scopriamo presto essere l’acqua.

Lopes allora estrae dal borsone una bottiglietta fresca e, non prima di aver inondato la guancia sinistra di Herrada di un’altra scarica di baci, gli versa lentamente l’acqua in testa, aiutandosi con una mano a diffonderla nel modo più omogeneo possibile tra i capelli. 

È forse il passaggio più potente di tutto il video, o quantomeno quello che a me ha fatto venire in mente, complice il nome di battesimo di Herrada, niente meno che un episodio evangelico, quello in cui Maria di Betania si avvicinò a Gesù con un vaso d'alabastro pieno di profumo di gran valore e lo sparse sul suo capo, incurante delle critiche che le sarebbero state rivolte a causa di quello spreco. La devozione di Raoul Lopes e di ogni soigneur, come quella della donna del profumo, prevede incombenze fisiche ancor prima che spirituali: il riguardo che si deve in prima istanza al corpo, alla sua sacralità.

Un bacio sulla nuca, un altro abbraccio, una carezza. Sopraggiunge un compagno di squadra di Herrada: non ancora il suo fratello maggiore (José) ma Rubén Fernández, che in carriera ha vinto un Tour de l’Avenir e poi più nulla. Anche Fernández ha l’aria di essere più gaudente del vincitore di tappa, costui inconsolabile al punto che viene quasi da chiedersi – giacché non si tratta della prima in carriera né della prima alla Vuelta – se questa vittoria celi per lui un significato altro, se un elemento biografico a noi sfuggito esasperi la sua sensibilità, come se certe reazioni si potessero controllare o contenere, e occorresse un surplus di motivazione a giustificare un così copioso effluvio emotivo. 

Non occorre. Le lacrime di Herrada sono un distillato purissimo di stanchezza e liberazione, esiti ugualmente probabili degli sforzi richiesti da questo sport di estremi, duro quanto, spietato quanto esaltante, i cui protagonisti sono supereroi e un attimo dopo relitti umani, vecchi saggi e poi di nuovo bambini, soprattutto bambini, e a quelli come Raoul Lopes li coccolano e li proteggono, curano loro le ferite della carne e dell’anima, facendoci tornare alla mente i baci dei nostri genitori qualche anno fa, dopo imprese che forse imprese non erano, e che nondimeno facevano singhiozzare di felicità.

 

Leonardo Piccione
 

 

 

 

 

 

 

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