[Liegi2024] Con la forza del pensiero

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Nel momento in cui, sulle pendenze più arcigne della Côte de la Redoute, Tadej Pogačar esce dalla fiammeggiante scia di Domen Novak e si alza sui pedali per la durata necessaria - meno di dieci secondi - a ridurre in frantumi la Liegi-Bastogne-Liegi 2024, alle sue spalle l’inquadratura include soltanto altre tre sagome pedalanti, infinitamente più scomposte della sua, tre sagome che arrancano mentre quella di Pogačar levita, tre sagome destinate a ridursi nel volgere di pochi metri a una sola, poi a nessuna.

La prima e più ricalcitrante è quella rosa fluo, giurassica nelle linee del volto, di Richard Carapaz; la seconda quella perennemente sghemba, smeraldata per metà, di Ben Healy, il campione d’Irlanda; la terza è la rossocrociata di Matthias Skjelmose, campione nazionale danese, vittima in settimana di un principio di ipotermia (alla Freccia Vallone). 

Un’ora dopo, sul traguardo di Liegi, Carapaz, Healy e Skjelmose, i più vicini all’epicentro nel momento in cui la corsa veniva squassata, si sono piazzati rispettivamente 26°, 27° e 28°. Misera ricompensa per cotanto battagliare.

Skjelmose ha sintetizzato il concetto confessando alla tv danese che quegli attimi di abbozzata resistenza allo strapotere dell’elfo sloveno gli sono costati l’intera corsa. «Se ti avvicini troppo al sole ti bruci», ha detto Skjelmose dimostrando di conoscere il mito di Icaro e la dinamica cardine del ciclismo nell’era dei Fenomeni, uno spietato gioco che non lascia scampo a chi pecca di hybris osando fiancheggiare, per quanto fugacemente, i due semidei che lo governano.

Al pari di quella di Van der Poel sulle pietre di Roubaix, la cavalcata di Pogačar negli ultimi trentacinque chilometri della Liegi ha suggerito una superiorità non colmabile con mezzi terrestri.

La sua azione era euclidea, soave il suo ondeggiare. Sembrava pedalare con la forza del pensiero mentre gli altri s’aggrappavano alla bicicletta con tutto ciò di cui i loro corpi mortali potevano disporre; mentre gli avversari s’affannavano in un inseguimento che più passavano i chilometri e meno pareva un inseguimento, lui dava l’impressione di navigare in un mondo suo, di ricercare una forma di pace interiore, di meditare - e forse lo faceva per davvero. Ha raccontato dopo l'arrivo di aver corso quest’edizione della Doyenne nel ricordo della madre di Urška Žigart, la sua compagna, deceduta alla vigilia della Liegi di due anni fa. 

Con questa fanno per lui sei vittorie su quattordici classiche monumento disputate in carriera, inconcepibile dato che trova un degno equivalente soltanto negli undici podi su diciotto monumento concluse (anche in questo caso con sei vittorie) che può vantare Mathieu van der Poel.

Il campione del mondo è riuscito a salire sul podio anche oggi, al termine di una gara disputata evidentemente con la spia della riserva lampeggiante e complicata dall’inseguimento a cui una spezzatura del gruppo in due tronconi (Pogačar davanti, Van der Poel dietro) ha a lungo costretto lui e diversi altri favoriti proprio prima che la corsa entrasse nel vivo.

Sebbene il terzo posto odierno sia in termini di risultato un deciso passo avanti rispetto al sesto del 2020, sulle côte belghe non c’è stato nessun duello tra i Fenomeni. Se Pogačar ha già dimostrato di poter battere Van der Poel sul di lui campo preferito (al Giro delle Fiandre, un anno fa), Van der Poel non sembra prossimo ad avere la meglio su Pogačar nel terreno d’elezione dello sloveno.

Per lo meno, sembra non esserlo con un programma di gare come quello per cui ha optato quest’anno. «Adesso capisco perché tutti dicono che è così difficile abbinare questa corsa alle classiche del pavé», ha spiegato Mathieu. «È qualcosa su cui dovrò ragionare in futuro».

Tra coloro che serberanno un buon ricordo della Liegi-Bastogne-Liegi 2024, citiamo anche Egan Bernal, felice per aver visto Pogačar «un po’ più da vicino» e per una prima parte di stagione in cui ha ritrovato consistenti sprazzi del miglior se stesso, e infine Romain Bardet, che sul podio di Liegi si è inserito, non senza sorpresa, tra le due divinità maggiori.

Grazie a una sapiente gestione delle energie e a un coraggioso attacco sulla Roche-aux-Faucons, a trentatré anni suonati Bardet ha ottenuto il suo più alto piazzamento in una monumento, migliorando il terzo posto alla Liegi 2018, quando lui era un altro corridore e il ciclismo era un altro ciclismo, e rimandando ancora per un po’ la sua assunzione a tempo pieno nel ruolo di editorialista dell’Équipe.

Dopo il traguardo, il francese è scoppiato in lacrime, sopraffatto da un risultato che non si aspettava e che tuttavia era tra le ragioni principali del suo continuare a far fatica. L’ha definito «la consacrazione dell’abnegazione, di questo desiderio di non arrendersi mai».

 

Testo: Leonardo Piccione
Foto: Francesco Rachello / Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

 

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