[TdF2022] ...E alla fine arriva Bling

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Così anche Michael Matthews ce l’ha fatta. Dopo cinque anni dall’ultima volta al Tour (a Romans-sur-Isère, 2017); dopo due secondi posti in questa edizione (uno dietro Pogačar, l’altro dietro Van Aert: c’è di peggio); dopo averci fatto ipotizzare, uomini di poca fede, che le ambizioni di gloria dei corridori del suo genere e della sua generazione fossero destinate a essere puntualmente frustrate da giovanotti più forti, più freschi o più ingordi – o più forti, freschi e ingordi insieme – oggi è andato a prendersi a Mende la tappa che complessivamente meno gli si confaceva tra quelle che aveva messo nel mirino.

Lo ha riconosciuto lui stesso dopo il traguardo: «Quando la fuga è partita e ho contato intorno a me qualcosa come diciannove scalatori, mi sono cagato addosso». 

Per questa ragione, per il fatto cioè che attaccando in salita sia riuscito a emergere solitario da un gruppone di attaccanti che comprendeva tra gli altri Pinot, Soler, Woods, Fuglsang e Urán, il verbo che meglio descrive la modalità con cui Matthews si è imposto nella quattordicesima tappa più che “prendere” è “strappare”. O meglio ancora: azzannare, divellere, sbriciolare, un’azione insomma che restituisca l’assoluta convinzione e la superiorità quasi violenta con le quali l’australiano ha salutato la compagnia dei soci fuggitivi che volta per volta hanno provato ad affiancarlo nei cinquanta chilometri conclusivi della corsa. 

Primi a provarci, sulla Côte de la Fage, Andreas Kron, Felix Grossschartner, e Luis León Sánchez: respinti il primo dalla discesa successiva (una foratura lo faceva sbandare, facendolo finire quasi tra le braccia di un distinto spettatore in camicia), gli altri due dal 10% di pendenza della salita finale. Qui aveva luogo il più concreto tentativo di opposizione allo strapotere di Matthews: opera di Alberto Bettiol, attivissimo tutto il giorno in quella che sembrava un’opera di supporto per Urán e poi capace, verso la metà della Montée de la Croix Neuve, di rientrare tutto solo sul mattatore in maglia celeste, persino di superarlo.

Era un’illusione. Nel giro di mezzo chilometro Matthews aveva ripreso il comando delle operazioni e la testa della corsa, che non avrebbe più lasciato. Col trasporto emotivo che gli è connaturato, dopo il traguardo ha ringraziato i compagni di squadra, suggerendo loro di non tradire mai la parola che lui si è tatuato sul collo: Believe. Poi ha dedicato la vittoria alla moglie, «ai sacrifici che fa per permettermi di realizzare i miei sogni», e alla figlia di quattro anni, «per mostrarle per quale motivo sto lontano da casa così a lungo».

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Testo: Leonardo Piccione
Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

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