[LetteraTour, Tappa 16] Persone normali

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Questo articolo è stato pubblicato nella newsletter #LetteraTour, curata da Leonardo Piccione, il 22 luglio 2023. Tutti i contributi della newsletter sono raccolti nel volume "Quelli che sognano di giorno", disponibile in formato cartaceo e digitale.

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Una prova a cronometro nella Vallée de l’Arve è un po’ come un raduno di estimatori di edifici conici ad Alberobello, o un concorso per aspiranti Guglielmo Tell in val di Non. Sono tre secoli che Sallanches e dintorni sono terra di orologiai: dapprima piccole produzioni artigianali, complemento del lavoro agricolo, poi ricche commissioni per le fabbriche svizzere. A Cluses ancora oggi hanno sede una scuola di orologeria e un museo del décolletage, la tecnica di lavorazione che consiste nel dare una forma specifica a un pezzo di metallo mediante asportazione progressiva di materiale.

Mentre l’oggetto ruota su se stesso, utensili da taglio via via più sofisticati lo rifiniscono con dettaglio crescente: è così che nascono ingranaggi minuscoli e pressoché imperfettibili, al termine di un processo la cui stella polare è la precisione.

Sembrava dunque del tutto appropriato che fosse la valle della precisione a ospitare il probabile episodio-chiave di un confronto che per quindici giorni s’era arrampicato a mo’ di edera sulla grande parete dell’equilibrio, i due rami portanti a rincorrersi e superarsi scambievolmente, ma mai definitivamente, nella lussureggiante elica di questo Tour.

Pensavamo, in altre parole, che per tener traccia delle risibili differenze tra i Mostri occorresse un orologio atomico, di quelli che perdono un secondo ogni quindici miliardi di anni. E invece altro che cronografi di precisione e metrologia quantistica: per misurare il distacco maturato oggi tra Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar sarebbero stati sufficienti strumenti ben più rozzi. Clessidre, svegliette da comodino, timer da cucina, qualsiasi cosa in grado di contare non le frazioni di secondo, non i singoli secondi, ma le decine di secondi. Quasi dieci ne ha rifilate la maglia gialla alla bianca, 1 minuto e 38 di vertiginosa superiorità che stravolgono i connotati non solo della Grande Boucle 2023 ma, in potenza, dell’intero panorama delle grandi corse a tappe dei prossimi anni.

Jonas Vingegaard ha operato il definitivo décolletage del suo potenziale ciclistico. I picchi di eccezionalità che aveva messo in mostra fino a oggi erano, in retrospettiva, poco più che operazioni preliminari: sgrossature, scanalature, smussature e finiture che lungo i 22.4 chilometri tra Passy e Combloux hanno fatto un salto di qualità, rivelando al mondo i contorni abbaglianti del perfetto meccanismo da corse a tappe in cui si sta trasformando il fu tribolato adolescente dello Jutland.

Era il contrario di un corridore irresistibile da ragazzino, Vingegaard, tanto che suo padre Claus ricorda senza difficoltà come fino a quindici anni Jonas non avesse vinto «assolutamente nulla», nonostante fosse lampante che quel corpicino esile celasse del talento – dove per talento si intende il solito inestricabile mix di benedizioni fisiche (come Pogačar, Van Aert e, in misura decrescente, tutti i componenti del peloton, Vingegaard è in prima istanza un essere umano fisiologicamente fuori dal comune) e virtù caratteriali. Più di una volta, dopo una caduta o un allenamento troppo intenso, Jonas si era fatto riportare a casa in anticipo dal papà, facendo scommettere i suoi compagni sul fatto che non l’avrebbero più rivisto. E invece la settimana dopo era di nuovo lì, duro come gli scogli, paziente come la pianura, in attesa di una maturazione fisica che, al rientro dalle vacanze estive del 2013, lo avrebbe finalmente reso competitivo.

Da quel momento in poi la sua crescita è stata inarrestabile, furiosa, procedendo non a passettini ma a balzi, in una serie di strappi verso l’eccellenza di cui quello di oggi è l’episodio di gran lunga più clamoroso. Con una performance a cronometro che alcuni sostengono non si vedesse al Tour dai tempi di Indurain o addirittura di Hinault, la sua evoluzione ha raggiunto uno stadio che, sebbene non definitivo (il ragazzo non ha nemmeno 27 anni), pare già adesso poco avvicinabile da chiunque, Pogačar incluso.

La fotografia di tale stadio è il profilo arcuato della sua sagoma gialla mentre sgommava per la Vallée de l’Arve infrangendo tutti i limiti di velocità. Oltre 41 all’ora di media. È andato più forte della più ottimistica previsione degli organizzatori – e di Pogačar – sia in salita che in discesa, sia in pianura che nei tratti in falsopiano. Il suo potenziometro esplodeva («Credevo si fosse rotto», parole sue) e il vantaggio sullo sloveno cresceva di oltre quattro secondi al chilometro, un disequilibrio talmente evidente da essere apprezzabile anche soltanto con lo strumento di misura che ci viene fornito di serie dalla natura: si intuiva a occhio – e fin dalle primissime curve fuori Passy, divorate dal capitano della Jumbo-Visma con famelicità quasi imprudente – che oggi Vingegaard navigasse in un universo tutto suo. Anziché stabilizzarsi, il divario si dilatava, superando l’impensabile soglia del minuto in cima alla Côte de Domancy, che, mentre Pogačar affrontava l’ulteriore deficit di secondi causato da un cambio di bici tutt’altro che lucrativo, lui spianava serenamente in assetto da cronometro.

Curioso come la salita di Domancy sia stato anche il solo tratto di percorso in cui qualcuno oggi abbia in qualche misura battuto Vingegaard: Giulio Ciccone, chirurgico nel gettare tutti i watt sul gran premio della montagna e rafforzare così la sua maglia a pois. Tra chi si è difeso bene all’insù, nota di merito anche per Pello Bilbao (4° al traguardo) e Simon Yates (5°).”

Per tutti-gli-altri, i numeri a Combloux erano impietosi. Forse persino più del minuto e 38 rifilato a Pogačar, erano i quasi tre minuti di vantaggio accumulati da Vingegaard su Wout van Aert, terzo, a chiarire le dimensioni dell’impresa. «Sono stato il migliore tra le persone normali», si consolava il belga dopo essersi stretto tra le braccia il compagno-fenomeno. Wout van Aert – il totemico, incomparabile, illimitato Van Aert – retrocesso a persona normale, come un qualsiasi personaggio di Sally Rooney: quale ossimoro!

No, stimato Wout, tu continui a non essere normale. Il fatto è che quei due sono ancora meno normali. Jonas Vingegaard e Tadej Pogačar sono, in questo momento, di un ordine di grandezza superiore rispetto a ogni altro vivente che pedali in questo cantone dell’universo.

Dopo i fatti di cui siamo stati testimoni oggi, la questione semmai è se stia emergendo uno scarto anche tra Quei Due, cioè se Vingegaard sia in procinto di abbandonare la suite che condivideva fino all’altro ieri con Pogačar per arredarsene una più grande, tutta sua, con più onori e più responsabilità. Detto in altri termini: la domanda su chi sia il migliore corridore da corse a tappe di questa generazione è finalmente prossima a ottenere una risposta attendibile?

Forse ragionava su questo Tadej dopo la tappa, nel retropalco, mentre Vingegaard autografava maglie gialle e lui se ne stava seduto con la testa tra le mani, pallido, in una rara esternazione di sconforto che per portata psicologica suggeriva il contrappasso della Planche des Belles Filles 2020.

È possibile che ripensasse ai giorni scorsi: all’illusione di aver rimediato alla sua farraginosa preparazione e di essere realmente alla pari con l’avversario. Magari si chiedeva se quell’altro, machiavellico, gli avesse concesso di rimanere in scia fino alla fine della seconda settimana proprio con l’obiettivo di nutrire le sue false speranze e lasciarlo sfogare il più possibile prima dell’inevitabile sentenza.

Non si può escludere nemmeno che Pogačar cominciasse a riflettere sui prossimi anni: su come vorrà o dovrà ricalibrare strategie e obiettivi nel caso in cui Vingegaard continuasse, sempre più eccellente, a concentrarsi sul Tour de France.

Ma è più probabile – nonché da noi auspicato – che Pogačar pensasse a un futuro molto più immediato di così: a domani, al modo in cui tenere in vita questo Tour. Ha dalla sua l’incoscienza. Ha dalla sua la gioventù. Ha dalla sua un percorso perfetto per gli agguati. Ha dalla sua una potente carta tattica, Adam Yates, che ha scavalcato Rodríguez ed è ora terzo. Le gambe migliori, beh, quelle tutto fa pensare che al momento non le abbia lui. 

 

 

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