[Fiandre 2022] - Una storia di zig-zag

Il Fiandre è una storia di zig-zag.

E di stradine, di villaggi, di salite; di mattoni su mattoni, pietre su pietre, muri su Muri – nelle Fiandre orientali cambia poco, sempre di tensione verticale si tratta. È una storia di zig-zag che occorre saper leggere, bilanciando lungimiranza, istinto e fortuna.

Ma è una storia di zig-zag fino a un certo punto – e che punto. Perché nella bizzarria del Fiandre, nel suo infinito arrotolarsi come un Tetris, la corsa infine si sfianca, si distende. E per decidersi finisce con un drittone: dieci chilometri pianeggianti, contro o a favore di vento, per entrare come una lancia fin quasi al cuore di Oudenaarde.

Così il Giro delle Fiandre, questa spezzettata vicenda di fatica e rilanci, nel suo momento cruciale diventa una retta, una saetta d'asfalto su cui la storia si fa lineare. Talmente lineare che questo pomeriggio lì, davanti a tutti, c’erano le due star della vigilia a giocarsi la vittoria.

Quando Mathieu van der Poel e Tadej Pogačar sono transitati all'ultimo chilometro, nell'ultimo istante in cui Minderbroedsstraat concede una via di fuga, il Fiandre 2022 sembrava fosse affar loro, e solo loro.

Ma la linearità di Minderbroedsstraat è un inganno, una complicazione travestita da semplificazione: quel rettilineo è il luogo in cui il Tetris può diventare dilemma del prigioniero, la vittoria un esercizio della mente. Nello specifico, del settore della mente umana in cui risiede la propensione al rischio, cioè la disponibilità a perdere tutto per provare a vincere, dal momento che le gare di ciclismo raramente prevedono pareggi o equilibri di Nash.

Van der Poel e Pogačar dunque traccheggiano. Sanno che individualmente non hanno nessun interesse a modificare la propria strategia d’attesa (chi lancia per primo la volata spesso perde, teorema tra i più noti del ciclismo), ma anche che così facendo rischiano di perdere tutti e due.

La storia allora torna imprevedibilmente a zigzagare: si spostano entrambi a sinistra, poi di nuovo a destra. Si guardano in faccia, si dicono qualcosa che resterà nelle pieghe della strada. Meno lontani di quanto pensino ci sono Valentin Madouas e Dylan van Baarle, che al mattino si filavano in pochi e che pure conoscono bene queste strade, conoscono il ciclismo a zig-zag.

Cinquecento metri al traguardo e i duellanti stanno in bicicletta come giocolieri, come sul monociclo con cui Pogačar si divertiva da ragazzino. Le quattro gambe che sul Paterberg giravano come turbine sono bloccate, la sinistra allungata e la destra piegata, come in una danza. Una coreografia che si svolge adesso su più piani: Van Baarle e Madouas sono ormai a ridosso, un altro gruppettino risale più in là, palline di un flipper definitivamente in tilt.

Davanti a tutti ancora Van der Poel, che guarda a destra e poi a sinistra. Pogačar, alla sua ruota, punta dritto davanti a sé. Due storie, due traiettorie diverse. 

Nel ciclismo spavaldo che ha contribuito a forgiare, impensabile fino a un decennio fa, Van der Poel si è ritagliato con Van Aert (il grande assente di oggi, vien quasi il mal di testa a pensare quali altre configurazioni di godimento ciclistico avrebbe potuto assumere questo Fiandre con lui) un ruolo molto ben definito: essi sono i motori primi, i fenomeni che attraverso la loro rivalità e il loro inestinguibile desiderio di migliorarsi hanno moltiplicato come pani e pesci la spettacolarità e l’appeal di uno sport che sembrava orientato verso un generale appiattimento.

Hanno compiuto un’impresa titanica, forse persino più grande di loro, in un processo durante il quale tuttavia più d’una volta hanno sbagliato, sperperato, fatto male i conti, sofferto. Li abbiamo visti, in una parola, perdere, questo verbo magico che fa imprecare ma avvicina, che ci fa apparire i grandi campioni simili a noi almeno in qualcosa.

L’avvento devastante di Tadej Pogačar, che per certi versi di Van der Poel e Van Aert costituisce una sintesi o un’evoluzione, non aveva contemplato, fino a questo pomeriggio, la categoria dell’errore. Tanto meno quella della sconfitta, la quale invece si è materializzata a duecento metri dall’arrivo, nel momento esatto in cui i prigionieri sono diventati quattro e uno spietatissimo Van der Poel ha deciso di risolvere il dilemma accelerando senza preavviso, lasciando Pogačar ingolfato nell'inusitato traffico di Minderbroedsstraat.

Quarto al traguardo dietro Van Baarle e Madouas, Pogačar si è stizzito, perdendo momentaneamente la tradizionale giocosità che ha caratterizzato finora il suo regno. Ha commesso un errore da principiante, come è stato detto, non foss’altro perché di principiante si trattava (nel senso di esordiente assoluto al Giro delle Fiandre).

Per lui non cambia molto, in prospettiva. Pogačar tornerà al Fiandre e verosimilmente un giorno non molto lontano lo vincerà, come vincerà decine e decine di altre corse. Farà tesoro di questa giornata e migliorerà ancora.

Però oggi ha perso. Ha perso nonostante Van der Poel sull’ultimo Muro fosse sul punto di cedere, ha perso nonostante abbia a lungo dato l’impressione di essere il più forte, e tutto sommato è una buona notizia, perché se nel ciclismo vincesse sempre il più forte forse non ci entusiasmerebbe più di tanto.

Invece il ciclismo è gioco d’azzardo, fiera del rischio, arte mimetica, capacità di lasciarsi plasmare dai luoghi e dalle situazioni. 

Difficile trovare una corsa in grado di plasmare i suoi protagonisti più del Fiandre. Da quelle parti hanno perfino coniato un termine, una figura quasi letteraria, per definirli: flandrien. L'epica locale li definisce come uomini determinati, pazienti, mai domi.

L'ultimo chilometro del Giro delle Fiandre 2022, col suo folle ondeggiare, ci aiuta a sintetizzarli in un modo più semplice e universale: esseri umani che, in fin dei conti, non fanno che barcamenarsi, procedendo a zig-zag.

 

Testo: Filippo Cauz/Leonardo Piccione.
Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

 

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