[LetteraTour, Tappa 6] Sogno di una notte estiva

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Il resoconto della sesta tappa del Tour de France 2023, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere registrandosi qui

 

Ce lo raccontavano più o meno così il ciclismo d’altri tempi. Battaglia tutti i giorni, pochi calcoli, imprese epiche, montagne incantate, pirotecniche rivalità, e noi – cresciuti a pane e trenini Sky – ci eravamo fatti l’idea che cose del genere potessero esistere solo nei libri, frutto della penna talvolta troppo ardita dei nostri narratori preferiti.

Non importava che fosse tutto strettamente vero (c’erano tappe noiose anche ai tempi di Coppi e Bartali, o di Poulidor e Anquetil), ma il fatto che Buzzati e Blondin ci parlassero dei grandi giri di una volta con tanto trasporto e dovizia di iperboli bastava a farci provare nostalgia per qualcosa che molti di noi non avevano mai conosciuto di prima mano.

E invece, nell’anno del Signore 2023, ecco che la prima settimana del Tour de France decide di proporci, una in fila all’altra, due giornate di ciclismo da annali di questo sport. Nemmeno nelle nostre fantasie più selvagge avremmo osato tanto, e invece è tutto reale, tutto accaduto davanti a noi, sotto i nostri occhi, qui e ora. 

È davanti a noi l’ineguagliabile Van Aert: davanti a tutti a dire il vero, per centoquaranta chilometri e mezzo su centoquarantacinque. Anodizzato, ignifugo, antigraffio, è il primo a provarci e l’ultimo ad arrendersi. Lavora per far partire la fuga, lavora per far aumentare il vantaggio della fuga, lavora quando la fuga viene ripresa e lavora per propiziare un’altra fuga.

È in testa a tirare dal chilometro zero, anzi da prima che cominciasse la tappa, o forse da prima che inventassero la bicicletta, probabilmente nessuno ha mai pedalato su questo pianeta senza che ci fosse Wout van Aert in testa a tutti. Ha la divisa semiaperta, il cursore della zip fermo sulla mappa della Francia che campeggia sul petto dei corridori della Jumbo: Wout se l’è abbassato fino all’altezza degli Alti Pirenei, proprio lì, a mo’ di indizio o promemoria, come a segnalare che questo è il luogo, questo è il giorno, questa è la tappa in cui la sua squadra ha deciso di provare a vincere il Tour.

E questo è il senso del perpetuo fuggire di Van Aert, del suo portarsi a spasso per le valli pirenaiche Alaphilippe e Van der Poel, Powless e Kwiatkowski, Guerreiro, Johannessen e gli altri tredici attaccanti del mattino: farsi trovare nel luogo convenuto all’ora convenuta per mettere a segno il colpo convenuto. Il luogo è leggendario: la discesa dal Tourmalet; l’ora, le quattro e cinque; la missione, incontestabile: lanciare Vingegaard verso l’arrivo di Cauterets, la vittoria di tappa, la maglia gialla e il vantaggio più largo possibile su Pogačar, ché fidarsi di uno così è bene ma non fidarsi è meglio.

Niente affatto scellerato come piano: se ieri quello lì ha perso 37 secondi in appena un chilometro di salita, quanti può lasciarne per strada oggi, soprattutto se dal Tourmalet in poi si ritrovasse tutto solo a inseguire Wout e Jonas?

E invece – e invece quello là è un demonio. Oggi Pogačar ha gambe d’acciaio, nervi di ferro e faccia di bronzo. Quando Vingegaard si presenta all’appuntamento con Van Aert, il danese non ha con se la refurtiva ma una zavorra, sessantacinque chili di zavorra recalcitrante. Pogačar ha tenuto duro sul Tourmalet, ha resistito alle sgasate di Kelderman e Kuss e al primo affondo di Vingegaard, ha spaginato il meticoloso piano della Jumbo e adesso scorge davanti a sé un finale di tappa ideale per le sue caratteristiche.

Il borgo in fondo alla discesa, Luz-Saint-Sauveur, ha per il suo Tour de France lo stesso valore che – parola di Victor Hugo – quell’abitato aveva per i contrabbandieri spagnoli che arrivavano all’Aragona attraverso la Breccia di Orlando: «Un grande chiarore alla fine della gola scura, come la porta di una cantina per chi v’è dentro». È durata meno di un giorno la prigionia di Pogačar nelle segrete di un Tour che pareva finito e che invece non era ancora nato.

Vingegaard ci provava un’ultima volta nel tratto più duro della salita finale, dopo che Van Aert si era finalmente fatto da parte, sbandando per la stanchezza in un raro sfoggio di umanità. Ma la convinzione del leader della Jumbo era a quel punto nullificata, i suoi neuroni picconati per chilometri dalla semplice presenza alle sue spalle di un Pogačar in totale controllo di se stesso, per una volta in grado di tenere a bada l’istinto e dosare le energie.

Quando, a tre dal traguardo, si è spostato per la prima volta in tutto il pomeriggio dalla ruota di Vingegaard ed è decollato verso l’iperspazio, sul volto del danese si è dipinta un'emozione simile a quella che l’avrebbe colto se, da ragazzo, tra i merluzzi che lavorava a Hanstholm fosse improvvisamente comparso un piranha fluorescente: non il panico (concetto che Vingegaard non conosce, difatti non è naufragato), ma la pura e semplice sorpresa.

Non se l’aspettava: non si aspettava che Pogačar lo attaccasse, ma soprattutto non si aspettava che la sua creatura tattica, quel progetto così minuziosamente confezionato, potesse fallire o – peggio – rivoltarglisi contro. Nel suo non commettere errori, ha finito col peccare di hybris.

È un passaggio che, oltre a riaprire il Tour de France 2023, raffigura emblematicamente l’essenza della rivalità tra questi due fenomeni, tra gli universi confinanti eppure così diversi che rappresentano: l’inflessibilità di Vingegaard – la sua fedeltà ai piani prestabiliti che, nell’elemento della costanza, è anche una delle sue grandi virtù – contro l’innata malleabilità di Pogačar, più prono ai tonfi ma anche ai picchi altissimi, versatile come nessun altro, rimodulabile e riadattabile a piacimento.

Nella facilità con cui è possibile identificarsi in uno o nell’altro approccio – al ciclismo, dunque alla vita – risiede la prima ragione che rende via via più generazionale il dualismo Vingegaard/Pogačar, elevato per portata simbolica già al livello dei maggiori nella storia del ciclismo.

La seconda sta nel valore squisitamente agonistico dei due ciclisti, nella differenza che fanno ogni volta che decidono di aggiungere una puntata alla loro epopea. Esclusi i fuggitivi superstiti, i migliori tra tutti gli altri, cioè Hindley, Rodríguez e Simon Yates, sono arrivati oggi a oltre due minuti e mezzo di ritardo da Pogačar; Adam Yates, Bardet, Pidcock e Gaudu, che pure si sono difesi bene, hanno accusato più di tre minuti. In classifica generale solo Hindley, che sul Tourmalet era stato l'unico a tenere la ruota degli alieni (sebbene per un paio tornanti appena), resta teoricamente in gioco per la vittoria: 1 e 34 stasera il suo ritardo dalla maglia gialla.

Capoclassifica da stasera è Jonas Vingegaard, la cui defaillance odierna ha ridimensionato ma non annullato quanto messo da parte ieri: persi 28 secondi, gliene restano 25 su Pogačar. «Mi piace questo colore», ha detto dopo il traguardo, apparentemente sereno. Ha dalla sua, oltre al vantaggio (piccolo), anche Van Aert (enorme). «Oggi sono stato più intelligente», ha risposto Pogačar, arrivato a quota 10 vittorie di tappa al Tour. Ha dalla sua, oltre alla follia (sana), anche la condizione (in crescita).

Sono passate sei tappe ed è successo tutto. Impossibile anche solo ipotizzare cos’altro poter attendersi da un Tour come non ne abbiamo visti quasi mai, in un ciclismo che sembra calamitare tutto il bello che sfugge al mondo fuori.

È una corsa onirica: Sogno di una notte estiva, come il sottotitolo di Atta Troll, l'opera lirico-satirica che il poeta tedesco Heinrich Heine compose tra il 1841 e il 1842 ispirandosi a un soggiorno a Cauterets. Rivendicava la funzione assoluta della poesia, unico linguaggio capace di rappresentare la realtà in tutte le sue contraddizioni, e a un certo punto scrisse così: «Sogno di una notte estiva! Di fantasia e senza scopo è il mio canto. Sì! Senza scopo come l’amore, la vita, come il creato insieme al creatore!»

 

Foto in copertina: Tour de France / ASO

 

 

 

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