[LetteraTour, tappa 10] It's the day of your life

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Il resoconto della decima tappa del Tour de France 2023, a cura di Leonardo Piccione, è accessibile a tutti i follower di Bidon, anche quelli non abbonati a LetteraTour. I pezzi precedenti - e tutti i prossimi - si possono leggere registrandosi qui

 

A ventun anni, l’età in cui Tadej Pogačar saliva sul podio al termine della sua prima Vuelta a España, Pello Bilbao non sapeva nemmeno se ne avrebbe mai corsa una. Fino a pochi mesi prima era un ciclista part-time: lezioni al mattino (ingegneria), allenamenti il pomeriggio e gare nei weekend. La sua dieta giornaliera era definita non da nutrizionisti di fama, ma dalla mensa universitaria.

Non che questo gli impedisse di andar forte in bicicletta, tutt’altro: per uno che aveva cominciato soltanto a sedici anni, e per banale imitazione di amici iscritti alla Gernikesa, ci sapeva fare. Pedalare gli riusciva molto più naturale che surfare o giocare a calcio – o alla pelota basca. Era competitivo in quasi tutte le gare, senza tuttavia eccellere in nessuna specialità. Ancora oggi, tredici stagioni di professionismo e quindici grandi giri dopo, riconosce candidamente che essere un ciclista completo è bello, ma ha un prezzo: «Non sono il migliore in nulla.»

Lo dice come dice tutto il resto, ogni volta che una vittoria (sua o di uno dei capitani per cui fedelmente si spende), gli ottengono un microfono piazzato davanti: con la voce sottile e gli occhi minuti, sovrastati da sopracciglia scure, folte, accenti neri su una faccia invariabilmente fanciulla.

Qualcuno dice che il suo sorriso abbia un che di malinconico, tradizionale manifesto degli animi delicati. Nei primi giorni del Tour 2023, Pello l’ha sofferta molto, questa suscettibilità. La partenza da Bilbao, il passaggio da Guernica, le urla, i cartelli, i murales. E quel pensiero fisso: una vittoria per Gino Mäder, per la sua memoria, la sua ispirazione, «il segno indelebile che ha lasciato in tutti noi».

Un fardello di emozioni che, ha spiegato, ha finito col travolgerlo e condizionarlo, togliendogli lucidità e limitando l’esito di quelli che aveva definito i giorni di corsa più importanti della sua carriera al 5° posto nella tappa di San Sebastián.

A bilanciamento del proprio carattere, o più probabilmente importante retaggio dei suoi studi, in corsa la qualità principale di Pello Bilbao è, infatti, la capacità di analisi. Si definisce un ciclista matematico, attratto dalla tecnologia, restio a fidarsi del proprio istinto se i numeri suggeriscono il contrario, e forse non è un caso che la vittoria più significativa della sua carriera finora sia arrivata nel pomeriggio in cui il Tour transitava da Besse-et-Saint-Anastaise, il borgo alverniate dove nel 1935 fu fondato un collettivo di ricercatori decisi a rivoluzionare la matematica moderna avanzata. I membri fondatori scelsero per il gruppo l’eteronimo Nicolas Bourbaki: con questa identità fittizia (ispirata a un generale francese dell’Ottocento) cominciarono a firmare i loro articoli scientifici, numerosi dei quali incentrati sulla teoria degli insiemi.

Teoria che ci aiuta a dire qualcosa sulla decima tappa, dal momento che, prima della volata vincente di Pello, è stata una folle celebrazione dei sottoinsiemi del ciclismo, detti per brevità fughe. Sarebbe più semplice dire chi non ha provato ad andare in fuga oggi: ci hanno provato uomini di classifica e velocisti, cacciatori di tappe, scalatori puri e classicomani. Immediatamente dopo la partenza da Vulcania, corridori di ogni tipo sono esplosi dal peloton come piroclasti incandescenti.

A un certo punto, quando mancavano ancora più di 150 chilometri a Issoire, persino Vingegaard e – con tempi di reazione appena più lunghi – Pogačar si ritrovavano all’attacco (e Gaudu e Bardet tra gli attardati, colti in un’apparente giornata di calvario). Era la fase del pomeriggio in cui tutto faceva presagire un affare da uomini di classifica.

Invece, superate metà tappa e quarta salitella categorizzata, la situazione fingeva di normalizzarsi: fuga compatta di quattordici davanti e a tre minuti un gruppo adesso corposo, con Gaudu e Bardet rientrati, gli altri big pacificati e persino qualche avanguardia della Alpecin a dare i cambi in testa, lasciando intuire che Philipsen avesse messo gli occhi anche su questo arrivo. Era in realtà il preludio a un nuovo colpo di scena – o di testa, o di calore: immediatamente prima dell’ultima salita, in un tratto in discesa, Mathieu van der Poel decideva di trasformare il suo turno in testa in un allungo imprevisto, inatteso, largamente insensato, al quale rispondeva, per riflesso pavloviano, Wout van Aert.

La decima tappa offriva dunque anche un’azione di coppia degli Altri Due Rivali, sommi sacerdoti del ciclismo-spettacolo, che in questo Tour (colpa delle dinamiche di corsa, ma anche della loro condizione) sembrano via via più stretti – e meno felici – nelle rispettive mansioni da supporter. Questa era la fase del pomeriggio in cui realizzavamo che sarebbe arrivata la fuga, dopotutto.

Il primo a provarci sulla Côte de la Chapelle-Marcousse era un incontenibile Neilands, 27 anni, il risultato dell’intersezione di tutti i sottoinsiemi che si sono formati nei 167 chilometri di gara: cambiavano gli altri elementi, ma lui c’era sempre. Filiforme ma caparbio, sembrava poter resistere al ritorno del gruppetto con Bilbao, O’Connor, Chaves, Zimmermann e Pedero e, poco alle spalle, quello con Alaphilippe, Kwiatkowski, Barguil e Skjelmose. Nelle cuffiette, il direttore sportivo della Israel lo incitava a più non posso, provando a bissare l’impresa riuscita con Woods sul Puy-de-Dôme: «It’s the day of your life!», gli urlavano. Non lo era.

Il lettone veniva ripreso a tre chilometri dall’arrivo, così che l’insieme definito dalle vittorie di Krists Neilands nel WorldTour continua a essere rappresentato dal simbolo utilizzato per la prima volta da Nicolas Bourbaki nel 1939: ∅. Quella specie di zero spaccato (simile alla barrata presente nell’alfabeto danese e norvegese), è da allora la notazione universale per l’insieme vuoto, il particolare insieme che non contiene alcun elemento al suo interno e che però è diverso dal concetto di niente.

È un contenitore senza oggetti, ma esiste. È qualcosa. È un involucro di coraggio e fatica, e dentro c’è il senso del ciclismo.

Ripreso Neilands (dal gruppo-Bilbao, non dal gruppo-Alaphilippe), in vista dell’ultimo chilometro era Zimmermann ad allungare, ma il tedesco della Intermarché veniva prima raggiunto e poi superato da un Bilbao più concentrato, più agile, nettamente più leggero. Dopo due vittorie di tappa al Giro, questa è la sua prima al Tour. Ha anche recuperato sei posizioni in classifica generale e da stasera è 5° a 4 minuti e 34 da Vingegaard, ma la cosa gli interessa fino a un certo punto.

Ha detto Pello che dallo scorso 16 giugno il suo unico obiettivo era vincere per Gino. Con questa vittoria in mente si è preparato, è partito, si è lasciato travolgere ed è ripartito. Ispirandosi a Gino, ha scelto di supportare la riforestazione nella comarca di Busturialdea. Un euro (due in caso di vittoria) donato in ciascuna tappa per ogni avversario preceduto: oggi, al termine di uno dei pomeriggi più torridi di quest’edizione, se li è messi dietro tutti. È stato il migliore.

 

Foto in copertina: Tour de France / ASO

 

 

 

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