[Paris-Roubaix 2022] Incomparabilmente più cool

La Parigi-Roubaix comincia in pianura e prosegue in pianura. Attraversa i dipartimenti dell'Oise, dell'Aisne e del Nord; scopre le prime stradine di campagna, poi cominciano i primi settori in pavé, uno dopo l’altro, le diverse televisioni del mondo si collegano e tutto cambia.

Va sempre così… Quasi sempre.

Perché oggi, per cucinare la Roubaix più veloce di sempre, gli uomini della Ineos hanno deciso di mettersi ai fornelli già all'ora di colazione. Tanto che in corrispondenza delle prime successioni di pietre, quando in genere del pranzo pasquale viene servita la prima portata, sembrava di essere già al caffè. Ventagli, accelerazioni, ricuciture e nuovi strappi.

Circa cinque ore più tardi, Stefan Küng, terzo al traguardo, avrebbe riassunto in questo modo la storica frenesia della Roubaix 2022: «Dopo una cinquantina di chilometri mi ero fermato tutto tranquillo a far pipì. Quando sono rientrato mi sono guardato attorno, e ho scoperto che nel frattempo un gruppone era andato via!».

Non lontano da Küng, seduto sulla sedia del velodromo di Roubaix di cui può beneficiare il solo vincitore (i suoi colleghi si accomodano più umilmente nell'erba), Dylan van Baarle avrebbe spiegato il piano d’assalto della sua squadra come una sorta di anelito insopprimibile: «Oggi non avevamo voglia di inseguire: volevamo stare davanti».

A ben vedere, è tutta la primavera che la Ineos non ha voglia di inseguire. Sempre protagonisti, dopo il 2° posto al Fiandre (opera dello stesso Van Baarle) nel giro di una settimana gli inglesi si sono portati a casa Amstel Gold Race, Freccia del Brabante e Parigi-Roubaix, attuando la fase finale di una metamorfosi che in breve tempo ha portato una delle più spietate corazzate da grandi giri che si ricordano a riciclarsi – e che riciclarsi – come superpotenza delle classiche di un giorno.

Forse è presto per affermare che la Ineos sia la nuova Quick-Step (qualche indizio c’è), certo non per accogliere con favore questo inatteso sottoprodotto dei grandi stravolgimenti che segnano il ciclismo di questi anni: la squadra pressoché universalmente associata alla prevedibilità e al piattume è diventata un rilevantissimo generatore di caos e vivacità.

Non che una corsa come la Roubaix necessiti di aiuti esterni, in quanto a caos.

Anche stavolta – che ovvietà – è accaduto di tutto. Cadute rovinose (Asgreen e Pedersen, già nel primo settore in pavé), forature sanguinose (Ganna e Ballerini per citarne due, ma si farebbe prima a stilare l’elenco di chi non ha forato), guai meccanici assortiti (su tutti Laporte, la cui ruota posteriore si è letteralmente accartocciata tra i sassi, e Stuyven, impelagatosi poche centinaia di metri prima dell’attacco decisivo di Van Baarle), protagonisti improbabili (Laurent Pichon, 35 anni, tutta la giornata in fuga e ottimo 8° al traguardo), conferme di livello (Matej Mohorič: solido, arrembante, consistente) e sconfitti altisonanti (Van Aert, 2° ma con giustifica, e soprattutto Van der Poel, 9° e senza grandi gambe).

Così è accaduto che nel momento-chiave della corsa, appena dopo il settore di Camphin-en-Pévèle, quando di chilometri al traguardo ne mancavano meno di venti, l’azione decisiva sia emersa non come diretta conseguenza dell’iniziale iperattività della Ineos, ma piuttosto come il coniglio dal cilindro estratto da un corridore a lungo atteso e finalmente arrivato.

Lì per lì, l’allungo di Van Baarle ha dato l’impressione di essere un’azione di distrazione, un movimento di supporto (specialità in cui l’olandese si è ben distinto nei suoi 9 anni di professionismo) che preludesse all’exploit del giovane e scalpitante Turner. Invece Van Baarle non si è più voltato indietro, davanti a sé la Parigi-Roubaix in tutta la sua maestosa e folle bellezza, utopia che respinge e seduce, che sa attendere e farsi attendere.

Nel corso della giornata-bignami della sua carriera finora, è stato attaccante, gregario, fuggitivo, contrattaccante, inseguitore, nuovamente fuggitivo, ancora attaccante, finalmente vincitore. E pazienza se la vittoria, per uno che ha la fissa di terminare le corse con la bici pulita, sia arrivata nella gara più sudicia del calendario.

Quando aveva 15 o 16 anni, al termine di una gara giovanile in Belgio Dylan van Baarle venne premiato con un diamante: «Era piccolo, ma molto cool». Oggi a Roubaix gli è stata consegnata un'altra roccia, parecchio più grande e pesante. Dodici chilogrammi di porfido: sul mercato dei derivati magmatici avrà forse un prezzo inferiore del diamante, ma – non c’è dubbio – incomparabilmente più cool.

 

Testo: Filippo Cauz / Leonardo Piccione. Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

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