[Amstel2025] Qualcosa di sbagliato

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Mattias Skjelmose pensava ci fosse something wrong, qualcosa di sbagliato. Con l’eccellente supporto di Remco Evenepoel aveva ripreso Tadej Pogačar a meno di dieci chilometri dall’arrivo dell’Amstel Gold Race, e non gli pareva possibile.

Gli sembrava di aver stravolto l’ordine naturale delle cose, di aver provocato l’inversione del moto di rotazione terrestre. La circostanza lo elettrizzava e lo intimidiva a un tempo. Quali sarebbero state le conseguenze di un tale affronto, di una bestemmia di queste proporzioni perpetrata peraltro nel giorno di Pasqua? 

Un anno prima, alla Liegi-Bastogne-Liegi, la propria ingenuità e la spietatezza del Pogačar l’avevano marchiato a fuoco. Se lo ricorda bene, quel giorno. Nell’illusorio tentativo di tenergli le ruote su una côte, si era guastato il resto della gara. Soltanto ventinovesimo al traguardo, il suo pomeriggio sarebbe stato ricordato soprattutto per l’immagine con cui davanti ai microfoni pennellò una condizione familiare a tutti i colleghi che prima e dopo di lui hanno brevemente osato tenere testa al folletto sloveno: «Se ti avvicini troppo al sole, ti bruci».

Mattias Skjelmose, ventiquattro anni e mezzo, è cresciuto nel quartiere Amager di Copenaghen, un sobborgo operaio conosciuto anche come “Isola della merda” (fino agli anni Settanta vi convergevano le acque reflue della capitale danese). Da piccolo non aveva amici, era sovrappeso e scarso a giocare a pallone. Si presentava agli allenamenti di ciclismo in sella a una vecchia city bike con un manubrio da corsa, che usava soprattutto per liberarsi dai cattivi pensieri. «Per rallegrami, pensare, piangere e ancora piangere», ha dichiarato a Rouleur.

Imparare rapidamente dai propri errori è un prerequisito esistenziale per quelli come Skjelmose, e se oggi a contatto dell'incandescenza iridata di Pogačar non si è ustionato è innanzitutto perché è maturato: ha dato qualche spunta al suo istinto, ha affinato l’arte della pazienza.

Non si è bruciato perché, nonostante continui a definirsi un’anima solitaria, ha compreso che nel ciclismo raramente si riesce a far tutto da sé. Quando, a 31 chilometri dall’arrivo, è stato raggiunto da Evenepoel e la sua rincorsa su Pogačar è passata da una chimerica impresa solitaria a un assennato lavoro di coppia, ha accettato di investire tutto quel che gli rimaneva nel mettersi a disposizione a vicenda che in questo sport può trasformare due avversari in formidabili alleati.

E difficilmente oggi pomeriggio Skjelmose avrebbe potuto trovare un alleato migliore di un Evenepoel olimpico, solido, consapevole dei propri mezzi anche nell’esercizio a lui tradizionalmente non congeniale dell’inseguimento. Abituato a essere quello che fugge, anch’egli interprete sopraffino del ciclismo degli uomini soli, Remco ha imbastito insieme al danese una delle più credibili battute di caccia mai portate a Pogačar.

Là dove in passato era spesso subentrata la cedevolezza, oggi al cospetto dell’inevitabile vantaggio acquisito a un certo punto da Pogačar ha prevalso la convinzione di poter, unendo le forze, rimediare. Un pedinamento che ha portato gli oltre trenta secondi di margine del campione del mondo a esaurirsi lentamente ma inesorabilmente fino al ricongiungimento del terzetto, avvenuto a 8 chilometri dal traguardo.

Occorre a questo punto dire che se oggi Skjelmose non si è bruciato, e qualcosa di sbagliato si è compiuto, è anche (soprattutto?) perché Pogačar non era il solito inscalfibile martello. Gli sforzi del Fiandre e della Roubaix hanno presentato il conto in una forma inattesa ma coerente e benvenuta, provando una volta di più che se Pogačar è garanzia di corse spettacolari, un Pogačar fallibile lo è di corse indimenticabili.

Si potrebbe obiettare che con una gestione più razionale di energie per una volta limitate (cioè evitando, come ha fatto, di dar corda a un garibaldino Alaphilippe e attaccare già a oltre quaranta chilometri dall’arrivo) avrebbe potuto vincere anche oggi. D’altra parte ha perso soltanto allo sprint, e per una manciata di centimetri. Ma siamo nel campo dell’irrealtà, di un rinnegamento della propria essenza che renderebbe Pogačar qualcosa di diverso da Pogačar.

Invece Tadej è Tadej, così come Mattias è Mattias - ma anche un po' Mathieu, chissà che il segreto per esorcizzare il diavolo di Komenda non stia nell'anagrafe. 

Intendiamoci, in conclusione: questa indimenticabile Amstel Gold Race non significa che è sufficiente che gli avversari collaborino tra loro per battere il ciclista più forte di questa generazione. Quello è un elemento che contribuisce, ecco. Ma per battere Pogačar occorre che tutte le stelle del firmamento lo vogliano e che tu, come ha fatto oggi nel Limburgo Skjelmose, ti faccia trovare pronto nel momento in cui si allineano. 

In attesa del responso del fotofinish, quello che avrebbe certificato la vittoria più importante della sua carriera finora, per alcuni lunghissimi secondi Mattias Skjelmose non ha fatto che ripetere sottovoce la stessa frase. «I think I won», diceva con gli occhi sbarrati, più spaventato che felice, come se ribadire di continuo quell’assurdo concetto fosse l’unico modo per renderlo reale.

Tra le braccia dell'ex professionista Eugenio Alafaci, oggi addetto della Lidl-Trek, sembrava piccolo e indifeso, dominato dall’insicurezza e dalla fragilità che ancora si porta dietro, e di cui un po’ si vergogna. Teme che non lo facciano sembrare un leader. Dopo un minuto la sua espressione si è rilassata in un sorriso sempre più largo, infine è stato sommerso da braccia e strilli amici: era vero, aveva vinto.

 

Testo: Leonardo Piccione

Foto: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

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