Un nuovo capitolo

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Quelle che iniziano domani pomeriggio a Burgos saranno le ultime tre settimane di Fabio Aru da ciclista.

Le ultime tre settimane da ciclista professionista, dal momento che, nel post Instagram attraverso cui ha comunicato la sua decisione, Aru ci ha tenuto a specificare che non ha «nessuna intenzione di lasciare la bici in garage».

Una delle cose che ha imparato nei difficili mesi che hanno portato al suo addio alle competizioni, ha spiegato, è che ama il ciclismo, e ancor di più ama andare in bici. 

Ha allegato al messaggio una foto di se stesso da ragazzino, impegnato in una delle gare di mountain bike che hanno innescato in lui la passione per le due ruote. È una foto bella, luminosa come il tracciato di gara inondato di sole che il giovane Aru affrontava all’epoca e come lo stato d’animo che emerge dal suo comunicato di ieri, niente affatto malinconico. 

Tutto lascia intendere che Aru si avvii al ritiro avendo raggiunto la condizione che più di tutte sembra essergli mancata nelle ultime stagioni, la serenità.

È sereno l’Aru che scrive ed è sereno l’Aru che pedala: brillante come non lo si vedeva da tempo, è arrivato secondo alla Vuelta a Burgos della settimana scorsa, suscitando speranze in chi tiferà per lui nell’imminente grande giro spagnolo e qualche rimpianto in chi si interroga sulle ragioni ultime dell’addio. Perché Aru si ritira proprio adesso che sembra aver superato le difficoltà che l’attanagliavano?

La risposta più immediata è che Aru ha superato le sue difficoltà proprio in quanto ha deciso di ritirarsi, cioè che la prospettiva di godersi un nuovo capitolo della sua vita, come l’ha definito, l’abbia alleggerito dalla zavorra di pressioni e responsabilità che si portava dietro da tempo.

È possibile che sia così, ma non lo sappiamo di preciso. Forse la decisione di ritirarsi invece non c’entra molto, e Aru è tornato a essere competitivo perché ha finalmente completato il processo di recupero dai guai provocatigli dall’arteria iliaca femorale della gamba sinistra.

Può essere anche che le due cose siano vere entrambe.

Quel che è certo è che le priorità della vita di Aru si sono modificate, e – sempre per usare parole del suo post – stare accanto alla sua famiglia in questo momento è più importante che lottare con i ciclisti più forti del mondo.

Ha anteposto una realizzazione di sé a un’altra, una felicità a un’altra, e sebbene la complessità individuale degli esseri umani renda impossibile qualsivoglia generalizzazione, la decisione di Aru si inserisce in una cronologia di analoghe scelte di vita che nel ciclismo (e più in generale nello sport ad alto livello) appaiono via via più comuni.

Il discorso è vasto e delicato, e richiede competenze che non è opportuno svilire in un articolo messo in piedi in poche ore. Ma una cosa che si può affermare senza troppi giri di parole è che è un bene che nel ciclismo, sport per eccellenza di uomini tutti d'un pezzo, venga esercitato con frequenza crescente il diritto a rivedere le proprie priorità, a fare un passo di lato, a prendersi delle pause ed eventualmente dire basta, talvolta “troppo presto”. Il diritto ad arrendersi, se vogliamo essere verbalmente brutali. 

Intendiamoci: continuano a emozionarci i campioni che non mollano mai, le odissee in cui il paladino coraggioso supera tutte le difficoltà, oltrepassa i propri limiti e infine trionfa. Guardiamo lo sport anche per questo: perché abbiamo bisogno di qualcuno che ci ispiri, di versioni migliori di noi stessi che attraverso le loro grandi imprese ci incoraggino a portare a termine le nostre piccole imprese quotidiane. È così, sarà sempre così, è comprensibile che sia così. 

Tuttavia la retorica dell’irriducibilità, dei supereroi senza macchia, del piegarsi ma non spezzarsi, possiede anche derive tossiche, oltre che certe sfumature dis-umane.

Fermarsi non è meno coraggioso di insistere. I tentennamenti sono legittimi. Cambiare idea è salutare. 

C’è, sembra quasi superfluo sottolinearlo, una profonda dignità nella scelta di Fabio Aru di svoltare. Ha ritenuto che adesso la cosa migliore per lui sia fare altro, e non si vede perché non possa essere anche questa decisione una fonte di ispirazione, a suo modo. Fare quel che occorre per stare bene con se stessi e con chi ci sta intorno: esiste un desiderio più umano e condivisibile di questo?

Un appunto che viene solitamente fatto a chi celebra le scelte come quella di Aru è che siano scelte tutto sommato facili, per individui nella loro posizione. Ci si può permettere di valutare le proprie possibilità con i modi e i tempi più opportuni. Ed è vero: gli sportivi di alto rango godono di condizioni altre, tendenzialmente privilegiate, rispetto agli esseri umani medi.

Tuttavia, al modo in cui l’alterità dei loro corpi non ci impedisce di lasciarci ispirare dalle loro gesta, la diversità della loro condizione economica non è sufficiente ad allontanarci dall'universalità delle loro tribolazioni, a non immaginare simili alle nostre le “notti insonni” citate da Aru nel suo post.

Taluni si chiedono se sia già possibile fare un consuntivo della parabola ciclistica di Aru. Se, nello specifico, uno con il suo talento avrebbe potuto "ottenere di più".

Certo, avrebbe potuto. Ma avrebbe anche potuto ottenere di meno, visto che il legame tra potenzialità teoriche e risultati effettivi raramente è spiegabile con un’equazione lineare, soprattutto nello sport.

Le cose sono andate come sono andate, e a ben vedere mica tanto male. Fabio Aru ha vinto una Vuelta a España, tappe in tutti e tre i grandi giri, un campionato italiano. È salito due volte sul podio del Giro d’Italia, ha vestito per almeno un giorno maglia rosa, maglia gialla e maglia roja

In un articolo del giugno 2017 a lui dedicato su questo sito, scrivevamo che Aru era «l’uomo cui il ciclismo italiano affida, da qui ai prossimi sette-otto anni, le proprie speranze di successo nelle grandi corse a tappe».

Nessuno poteva immaginare che, appena quattro anni dopo, quella speranza sarebbe stata sul punto di partire per la sua ultima corsa a tappe della carriera. Non avrebbe nemmeno senso, adesso, nascondere una punta di nostalgia rispetto a quell’estate, a quella prospettiva, al gran bel ciclista che è stato - e che per tre settimane ancora sarà - Aru. 

Ecco, quell’articolo era nato proprio dal desiderio di elogiare l’Aru corridore, indugiando su una delle sue caratteristiche più emblematiche: la sua straordinaria espressività, una delle ragioni che da subito ce l'hanno fatto sentire vicino.

Scrivevamo, all’inizio di quel pezzo, che «Fabio Aru possiede la dote naturale e non comune di una gestualità corporea totale, del tutto spontanea, che lo rende immediatamente e irrimediabilmente simpatico, nel senso originale di sim-patia: la sua naturalezza, negli attacchi in montagna come nelle dichiarazioni rilasciate ai microfoni, è una cosa che suscita disposizione d’animo favorevole in chi lo osserva.»

Allegammo all’articolo una collezione di emoticon (anzi ajòticon, come le battezzammo), ciascuna ispirata a una delle proverbiali smorfie di Aru. C’era la faccina ansimante, quella coi denti digrignati, quella con la lingua di fuori, quella esausta.

C’era, in ultimo, l’espressione che ci auguriamo Aru sfoggi sul suo malleabile volto nel corso delle prossime tre settimane, e di tutte le altre che verranno dopo: quella sorridente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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