[Fiandre 2023] Un compito più grande

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    Seduto su un ramo a riflettere sull'esistenza. Cofondatore di Bidon, durante una pausa si è laureato in statistica. Fonti di ispirazione: le biciclette, l’Islanda, i pub di Oxford e Cristobal Jorquera.

Tadej Pogačar ha vinto il Giro delle Fiandre ed è certo che a quest’ora della sera sappiate già che si tratta del terzo corridore nella storia in grado di trionfare al Ronde oltre ad aver conquistato in carriera almeno un Tour de France.

Lo avrete ascoltato alla tv, letto in un tweet, appreso da una cronaca, sentito da un amico (poche gioie in quest’epoca pari a quella di avere amici con cui commentare le gare di ciclismo), e forse vi è sorto il dubbio che la ripetizione del dato contenga della sostanza dopotutto, che non sia una ridondanza fine a se stessa o il sintomo di una diffusa mancanza di argomenti.

La realtà è che questa cosa che l’accoppiata Tour-Fiandre prima di Pogačar sia riuscita solo a Bobet e a Merckx è rivelatrice per davvero, e aiuta a posizionare i fatti di oggi nella prospettiva che pare essere la più adeguata di tutte: quella storica. 

In diverse altre occasioni era capitato, parlando di Pogačar (della sua precocità, della sua polivalenza, della sua fame), di estrarre i suoi successi dal piano labile della contingenza e trasferirli, mentre ancora si compivano, in quello della memoria.

La folgorazione della Vuelta d’esordio; la cronometro delle Belles Filles; la conferma del secondo Tour; i due Giri di Lombardia; la Liegi; quella Strade Bianche; il multiforme dominio spalmato da gennaio a ottobre, dal deserto arabico ai Pirenei, dalle pietre fiamminghe a laghi prealpini.

Era chiaro che non fossero successi qualsiasi, che fossimo di fronte a una singolarità sportiva di prima grandezza. Impresa dopo impresa, abbiamo pressoché consumato il concetto di “riscrivere la storia”, esaurito la scorta di sinonimi della parola “fenomeno”, eppure mai prima di questo pomeriggio era apparsa così lampante l’evidenza che Tadej Pogačar è, in parole povere e senza timor d'iperbole, l’essere vivente più straordinario che sia capitato di ammirare in sella a un biciclo da diversi decenni a questa parte.

È avvenuto nei tredici chilometri che separano la cima del Paterberg da Oudenaarde, quando abbiamo ricevuto la conferma che il nemmeno uno dei migliori Van der Poel visto su queste strade (parole sue) avrebbe potuto riportarsi sullo sloveno, e ancor di più nei minuti successivi all’arrivo in solitaria e all’urlo liberatorio, allorché Pogačar ha dichiarato col consueto candore che la sua carriera sarebbe anche potuta finire lì – o se non la carriera, di sicuro la stagione.

Se non vincessi il Tour de France saresti soddisfatto del tuo 2023?, gli hanno chiesto. E lui ha risposto certo che sarei soddisfatto, con un’espressione quasi sorpresa dalla domanda, come a dire non è ancora chiaro che il Padre mio mi ha mandato per un compito più grande, che il mio mandato va al il là di questa o quella gara?

Non esclude in futuro di provarci con la Roubaix, sicuramente ci riproverà con la Sanremo, altri grandi giri, poi chissà cos’altro. Per gli appassionati di ciclismo contemporanei la benedizione è doppia, visto che non solo gli è piombato dall’empireo uno dei talenti più puri mai visti, ma in aggiunta il portatore di quel talento ha scelto di metterlo a disposizione di ambizioni virtualmente illimitate, via via più complesse e per questo più spettacolari. 

Pogačar modifica il suo corpo (un paio di chili in più, per digerire meglio le pietre), affina le strategie (veementi attacchi mirati sul Kwaremont, il muro a lui più congeniale), adatta preparazione e calendario in una progressione che riesce nell’impresa di essere insieme scientifica e letteraria, programmata e naturale.

Ha vinto il Giro delle Fiandre più veloce della storia (oltre 44 all’ora di media), con più muri di sempre (19) e un livello medio difficilmente quantificabile. Basti pensare alle prestazioni enormi di due come Asgreen e Pedersen, un già vincitore del Fiandre e un già campione iridato, costretti dalla conclamata superiorità del trio Pogačar-Van der Poel-Van Aert a una tattica di gara rischiosa, dispendiosissima, impagabile.

Partito all’inseguimento dei fuggitivi sul Wolvenberg, a oltre 110 chilometri dal traguardo, impietosamente ripreso da Pogačar sull’ultimo Paterberg e tuttavia capace di sprintare per il terzo posto finale, Mads Pedersen ha raccontato oggi il campione che è persino meglio di quanto non abbia fatto vincendo un mondiale.

E poi la consistenza degli anglosassoni (Powless, Jorgenson, Wright, tutti meritatamente in top-10), la testardaggine di Küng (tra i più instancabili piazzati di quest’epoca), la generosità di Trentin, decimo, al suo miglior risultato in un decennio di Fiandre nonostante la dedizione assoluta alla causa del capitano, quel Pogačar di cui sopra.

Quasi un delitto, in quanto alla possibile candidatura a “corsa di ciclismo perfetta” del Giro delle Fiandre 2023, che nella fase decisiva della corsa sia mancato (complice forse una caduta nelle nervose fasi iniziali) il miglior Van Aert, nuovamente battuto in una delle due corse – l’altra è la Parigi-Roubaix – che, come ha spiegato, ti rendono un corridore diverso quando le vinci. 

In una certa misura, questo Fiandre cambierà anche Tadej Pogačar. Aggiunta un’altra tessera al suo mosaico di capolavori, potrà ora dedicarsi alle poche che ancora gli mancano per portare a termine la propria missione. Ha ventiquattro anni e mezzo e tutto il tempo per riuscirci. E poi?

 

Testo: Leonardo Piccione
Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

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