Meravigliosi perdenti - Intervista ad Arūnas Matelis

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    Scalatore da bancone, pistard da divano. Ama il rumore, i bratwurst, dormire e leggere seduto sul water. Ha visto il volto di Dio in tre occasioni: una volta era Joey Baron, le altre due Laurent Jalabert.

C'è un altro Giro d'Italia, un altro mondo del Giro d'Italia, che sta si sta preparando ad attraversare la penisola dopo l'antipasto mediorientale.

È un Giro privo di partenze ed arrivi, scatti e vittorie, ma pienissimo di corpi che trasudano fatica e passione. È il Giro di "Wonderful Losers - A different world", il documentario che il regista lituano Arūnas Matelis ha voluto dedicare ai gregari, protagonisti silenziosi del ciclismo.

Per noi che amiamo chi trasporta le borracce tanto quanto chi le regala agli spettatori, quest'opera è quasi più interessante del Giro stesso, e non appena abbiamo addocchiato il passaggio di Matelis dall'Italia, abbiamo pensato di contattarlo per farci raccontare cos'è e come nasce questo documentario, che nelle prossime tre settimane sarà proiettato al seguito della Corsa Rosa.

Abbiamo fatto una lunga chiacchierata telefonica con Matelis al termine del Trento Film Festival, seconda tappa di un Giro d'Italia cominciato per lui nel migliore dei modi, con la vittoria del premio come miglior documentario al festival di Trieste. E abbiamo cominciato proprio parlando di Giro, alla vigilia della partenza da Gerusalemme. Un Giro che Matelis non potrà seguire di persona, impegnato dalle presentazioni del film, ma di cui cercherà di perdersi il meno possibile.

Buongiorno Arūnas. Ci dici, per cominciare, qual è il tuo rapporto col ciclismo, sia guardato che praticato?

Guardo sempre il Giro e il Tour, la Vuelta un po' meno, quando il lavoro me lo consente. Amo la bici e il ciclismo, non ne sono ossessionato, ma è una mia passione. E poi vado al lavoro in ufficio, almeno con il bel tempo.

A casa abbiamo appena comprato delle bici nuove, con la famiglia ci facciamo dei giri nelle foreste vicino a Vilnius; ci piace pedalare quando possibile. Non sono un ciclista da 200 chilometri quindi, ma da 40/50 quello sì. Avrei voluto diventare un ciclista quando ero a scuola, ma non ero abbastanza forte.

E per questo che hai deciso di rifarti girando un film sul ciclismo, o ci sono altre ragioni?

Una delle ragioni che mi ha portato a fare questo film è il fatto che negli ultimi dieci anni la maggior parte dei film sul ciclismo, specie quelli di respiro internazionale, o erano su Lance Armstrong o erano sul doping. Sembrava quasi che il ciclismo fosse solo doping e Armstrong, ma il ciclismo è molto di più, ha argomenti molto più interessanti. È molto diverso dagli altri sport. Mi faceva arrabbiare il fatto che nessuno parlasse della vera essenza del ciclismo, che nessuno parlasse di questa fratellanza, del ruolo dei gregari, di uomini che fanno sacrifici importanti per gli altri.

Hai una specie di venerazione per i gregari…

Nel ciclismo o sei capitano o sei gregario, il che significa che devi dedicare tutte le tue energie, i tuoi sforzi, i tuoi sogni semplicemente ad aiutare gli altri ed essere felice delle vittorie del tuo capitano. Non è una cosa ordinaria, né nello sport né nella vita, e per me questa è l’essenza del ciclismo. Il film non parla di uno/due corridori o di doping; dal mio punto di vista non sarebbe corretto.

Non trovi che sia un po’ come il cinema? Leggiamo sempre il nome del regista, ma dietro c’è un gran lavoro di squadra, ci sono gregari che portano borracce al regista.

Una cosa che dico sempre ai miei colleghi è che loro non sono miei gregari. Il film è il capitano: anche io come regista sono un gregario. C’è sicuramente molto di simile al ciclismo, nel cinema tante volte è più importante dire grazie che guadagnare di più, perché si è tutti parte di un unico lavoro, si raggiunge un risultato insieme.

E in tutto questo come si inseriscono i medici?

Prima di iniziare a fare il film sono stato al Giro altre volte, e ho notato queste squadre di medici. Ho pensato di seguirli perché ti danno un senso pratico, anche quando non sanno dove sono e cosa è successo, si chiedono cosa è successo, vedono i corridori feriti o caduti, li aiutano a rialzarsi e li curano mentre pedalano. È una cosa davvero strana, nel senso positivo. Una bella sensazione. Inoltre dall’auto dei medici inoltre puoi cogliere davvero lo sforzo dei ciclisti, il modo in cui continuano la corsa nonostante le botte, e ti viene da chiederti perché.

Perché?

È una domanda fondamentale, è il tema principale del film. Da una parte puoi osservare il lavoro dei medici, puoi sorridere e vederli in azione in un contesto inedito, ma dall’altra ti porta inevitabilmente a chiederti perché i corridori fanno così. E attraverso la coscienza di gente come Tiralongo, Daniele (Colli) o Svein (Tuft) puoi arrivare a un altro livello. Perché? Erano così malmessi, una persona normale avrebbe chiesto dei giorni di malattia dal lavoro. Perché invece loro continuano a correre, a sacrificarsi per qualcun altro?

I veri protagonisti del tuo film sembrano essere i corpi. Si vedono continuamente muscoli, ossa e sangue; e c’è sempre un’attenzione particolare ai gesti dei medici. È come se volessi dirci che questi corpi sono sacri, quasi come fossero reliquie di una mistica dello sport estremamente fisica, persino ostile.

La mia prima idea era di fare un film solo dall’auto dei medici. Era come fare un film sulla guerra, ma senza mostrare alcuna battaglia. D’altra parte nel film non ci sono mai delle cadute, ci sono soltanto uomini a terra che si sforzano per rialzarsi, rimettersi in sella e proseguire la gara. L’idea era mettere soltanto le telecamere sulla linea del fronte, che è l'auto dei medici, e osservare i soldati feriti che tornano a farsi curare e poi si gettano nuovamente all'assalto. Guardare la corsa dalla prospettiva dei medici ti fa capire come sia anche una guerra, non è uno scherzo, il sangue è reale, le botte sono reali.

Viviamo in un’epoca in cui il dolore è ovunque, non perchè sia più comune ma perchè abbiamo molti più strumenti per documentare il male che avviene nel mondo. Allora perché siamo ancora così attratti (e commossi, il tuo film è davvero toccante) da una sofferenza superflua, volontaria ed illogica come quella del ciclismo?

Nel ciclismo puoi capire davvero come è forgiato il corpo, e come lo spirito possa essere forte. E piano piano, passo dopo passo, sino all’ultimo episodio di Svein (Tuft) nelle montagne puoi capire davvero quanto sia grande la forza d'animo necessaria ad andare avanti. Inoltre tutti questi sforzi non vengono fatti per se stessi, per le proprie vittorie. Nel ciclismo c'è una grande forza fisica, ma è soprattutto la forza d'animo a incidere. Questi corridori devono superare i propri limiti, raccogliere sforzi, desideri ed energie per qualcosa che supera ogni egoismo, solo per aiutare gli altri, qualcosa che tanti di noi probabilmente non farebbero mai.

Si può guardare a tutta questa sofferenza come a una forma pura di passione (nel senso letterale del termine) per il ciclismo. Ma si può leggerla anche come una forma di realizzazione personale, un traguardo da raggiungere?

È un discorso di volontà. La bicicletta è una cosa paradossale, perché non può mai stare ferma, se smetti di pedalare cadi. È un po' come nella vita, non ci si può mai fermare, è necessario vivere ogni giorno. È un discorso di superamento delle difficoltà, il guerriero ferito cerca di superare il dolore per tornare in battaglia, perché la battaglia è l'essenza della sua esistenza.

Quasi tutti i tuoi protagonisti parlano di "cultura ciclistica". È qualcosa che appartiene solo ai gregari o loro sono semplicemente più portati a parlarne?

Pensando ai miei personaggi direi di sì. Quando li guardi in faccia il loro sguardo non mente, e ti accorgi che sono persone che trovano la felicità nel sacrificio. È un approccio sicuramente più culturale, una filosofia. È una cosa che non può avvenire in ogni contesto. Mi ricorda un po' la vita dei monaci, che dedicano la vita a qualcosa di più grande: è più importante aiutare gli altri che arrivare per primi. È una scelta di fede, e seguendola è impossibile non essere felici. Qualcuno ha scritto che le facce dei miei protagonisti ricordano dei monaci buddhisti, hanno un diverso sguardo negli occhi.

Forse abbiamo tutti una visione distorta degli sportivi.

Spesso noi artisti, registi, poeti, professori, guardiamo agli sportivi come a gente che non si prende nemmeno il tempo di leggere un libro, però quando poi incontri questi ragazzi capisci che sì, magari hanno una cultura più ridotta, ma sono educati alle cose più importanti, e allora finiamo per trovare risposte simili. Il loro è un sacrificio reale, non è che stanno solo portando una borraccia.

Portare le borracce è un lavoraccio, significa tornare all’ammiraglia, caricarsi, inseguire il gruppo, individuare i propri compagni di squadra e distribuirle, non è meno faticoso del lavoro di chi va all’attacco, che è sempre inquadrato in TV e sta in testa alla corsa. Solo che quelli davanti vengono visti come i forti e i vincenti, quelli dietro sono i perdenti, spesso non hanno neanche la possibilità di dire qualcosa alle proprie mogli, alle famiglie, ai figli... Possiamo chiamarla cultura, filosofia, persino religione, in ogni caso è qualcosa di più grande del solo fare sport.

Per scoprire questa felicità hai dovuto entrare dentro alla corsa. Non è una cosa che capita tutti i giorni.

Sono molto felice perché la mia opera indipendente è il primo film sul Giro dopo "The Stars and the Water Carriers", film del leggendario Jørgen Leth realizzato al Giro del 1973. Non avevo neanche molta esperienza su cui basarmi quindi. Ogni passo che abbiamo fatto all'interno della gara è stato assai rischioso, l'organizzazione non era chiara, abbiamo commesso alcuni errori, eravamo sempre sul limite del cartellino rosso, ma siamo stati in grado di adattarci giorno dopo giorno e alla fine abbiamo capito come muoverci. Poi un giorno un nostro cameraman è caduto in moto per salvare un ciclista, e lì si è capito che eravamo parte del gruppo, pronti anche noi a sacrificarci per il bene dei corridori.

I passaggi più significativi del film come sono nati?

Sono momenti che non puoi mai preventivare, come la proposta nuziale di Jos Van Emden o i buchi di memoria di Chris Anker Sørensen che ricorda i nomi dei propri figli ma non la caduta che l'ha coinvolto pochi minuti prima. Sono cose che non puoi prevedere in una sceneggiatura, potresti essere in un'altra auto quel giorno e non vederli nemmeno. Per questo non credo che farei di nuovo un lavoro così duro.

Come hai scelto i tuoi protagonisti? C’è stato un lavoro comune prima della corsa?

Sì, con qualcuno siamo stati in contatto, soprattutto Daniele Colli perché era appena guarito dal cancro ed era una figura molto interessante, una storia simile ad Armstrong. Ci tenevamo a raccontare storie di uomini che possono rialzarsi dopo una caduta, quindi in parte abbiamo scelto dei personaggi, ma non potevamo certo augurarci che cadessero, quindi abbiamo anche cercato persone sul luogo figure da rappresentare dalla sofferenza sull’asfalto alla forza con cui ripartire.

Svein Tuft per esempio lo abbiamo trovato in una caduta. E' stato un vero dono dal cielo, perché in una caduta possono esserci anche 20 corridori, e devi sceglierne uno/due per seguire come si rialza e come riparte, e magari alla fine è il personaggio sbagliato per il film. Svein è differente, è unico. Ce ne siamo accorti subito, e si vede immediatamente nel film con il suo allenamento in montagna e i suoi bagni nella sorgente. È un ciclista anomalo, ha cominciato a correre quando aveva 23 anni o giù di lì, ma dice sempre che nei momenti più duri ciò che conta non è il talento o l'allenamento, ma quanto a lungo uno riesce a soffrire, quanto si riesce a controllare il dolore senza paura di soffrire di più. Per questo va a scalare le montagne, dorme all'aperto in sacco a pelo e si fa il bagno in torrenti glaciali: si sta allenando, soprattutto mentalmente, a stare dentro al dolore e a controllarlo.

Come è avvenuto l'avvicinamento ai corridori? La collaborazione con Edita Pučinskaitė vi aiutato a comprenderli meglio?

Sì, Edita è stata fondamentale nel rapportarci sia con i corridori che con gli organizzatori, perchè per ottenere i permessi ci è voluto parecchio. Gli ha fatto capire che non si sarebbe trattato di un film contro il ciclismo, una cosa sul doping o simili. Il parere di una campionessa come lei ha ispirato più fiducia.

E conquistare la fiducia dei corridori non è stato facile, la sola intervista a Tiralongo ha richiesto un anno e mezzo di lavoro. Abbiamo dovuto far capire a tutti che non avevamo fretta, che non eravamo una televisione ma cercavamo qualcosa di speciale, non ci bastava fare domande ma volevamo calarci nelle loro vite con estremo rispetto. Fortunatamente il Giro è un viaggio lungo e piano piano i corridori hanno cominciato a fidarsi di noi, a sciogliersi, a confidarci anche sensazioni più intime e personali. Inoltre spesso noi non cercavamo un dialogo ma preferivamo soprattutto osservare in silenzio, guardare da vicino i muscoli, le gambe, i corpi. E' stata una scoperta umana reciproca, e felice.

Nel film c'è pochissima musica e tanti rumori di corsa. Nella sua prima intervista, Colli comincia parlando proprio del suono del pubblico in volata e dopo la sua caduta. Credi si possa rappresentare il ciclismo anche attraverso i suoi suoni?

Quello sul suono è stato un lavoro particolare, perché in corsa non hai mai l’occasione di registrare il suono naturale, è sempre coperto dalle moto, dal vento, dai rumori. Ma abbiamo cercato comunque di interrogarci su quale fosse il paesaggio sonoro della corsa.

Durante le riprese abbiamo usato parecchi canali di registrazione, anche 30 o 40, eppure paradossalmente la maggior parte della colonna sonora è stata ricreata in studio, per di più da un compositore che non era nemmeno venuto al Giro. All'inizio non aveva molta ispirazione, ma fortunatamente è uno che va spesso in bici e un giorno è andato a fare un giro lungo e ha cominciato a ragionare sul ritmo del respiro, su come diventa quasi una preghiera. E' partito da lì, e alla fine ne è seguita una colonna sonora ricostruita perlopiù in studio, con una piccola parte soltanto di registrazioni originali. Non era una cosa decisa prima, ma ha funzionato. In realtà è un mistero anche per me come ci siamo riusciti.

In chiusura, abbiamo una curiosità che si ricollega al nostro simbolo, la borraccia. Ci stavamo chiedendo se in tutto questo lavoro avessi avuto il tempo, o il desiderio, di raccogliere anche tu delle borracce a bordo strada come souvenir della corsa.

Certo che avrei voluto! Ma spesso ero davvero troppo impegnato con le riprese, non riuscivo nemmeno a trovare il tempo per mangiare. Però sono riuscito a raccogliere una borraccia dell’Orica. E la uso sempre, quando viaggio e quando vado in bici. Una sola borraccia, ma molto utile. La prossima volta che vengo al Giro però voglio tornare a casa con una borsa piena.

 

Il Giro d'Italia di "Wonderful Losers" è pronto al via. A partire da questa sera e sino al 28 maggio, le proiezioni attraverseranno lo stivale seguendo la corsa, talvolta anticipandola, talvolta scappando in fuga altrove. L'elenco completo delle proiezioni, in costante aggiornamento, si trova sulla pagina Facebook "Wonderful Losers - in Giro per l'Italia".

Le proiezioni avverranno nel momento in cui saranno pre-venduti biglietti a sufficienza sulla piattaforma MovieDay. E' un modo per sostenere il cinema indipendente, ma è soprattutto un bel modo per vedere un bel film sul ciclismo, per diventare gregari di quest'altro Giro.

 

 

 

 

 

 

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