La speranza che Newton si sbagliasse: Prefazione

"La speranza che Newton si sbagliasse" è la raccolta dei ventuno (più uno) articoli post-tappa scritti durante la Grande Boucle 2020 da Leonardo Piccione. Quella che segue è la prefazione a cura di Filippo Cauz, mentre a questo link trovate maggiori info sul libro - su tutti i nostri libri - che è diponibile adesso anche in formato cartaceo.

 

*

 

Il Tour de France 2020 è stata un’edizione da record. Passata un po’ sotto silenzio sui grandi media generalisti (Francia esclusa), la Grande Boucle numero 107 ha dato un’ulteriore segnale della fase di cambiamento che sta vivendo il ciclismo. E non si tratta soltanto di un ricambio generazionale. Il ciclismo sta attraversando una nuova espansione geografica, sta riscoprendo prestazioni che non si vedevano da più di un decennio, sta esplorando risorse tattiche e tecniche nuove.

Questo Tour ha saputo riassumere alla perfezione un’epoca di novità, a partire dal più evidente elemento che lo ha reso unico (speriamo): la collocazione in calendario. Quello del 2020 è stato per la prima volta un Tour settembrino, ma è stato anche il Tour che ha visto interrompersi il dominio di Peter Sagan nelle classifiche a punti e della Sky/Ineos in quelle a tempo, nonché l’edizione con il distacco più ampio degli ultimi 66 anni tra il primo e l’ultimo. 

Il primo Tour senza salite storiche in programma, il primo senza folla sugli Champs-Élysées, ha accolto l’esordio sul podio della Slovenia, Paese che da “vergine” si è preso i primi due gradini del podio. Due posizioni invertitesi al penultimo giorno, cosa che alla Grande Boucle non accadeva da nove stagioni, e ad operare il ribaltone è stato un ragazzo di poco meno di 22 anni. 

Un record? Quasi. Tadej Pogačar è il secondo più giovane vincitore della storia della corsa, preceduto solo dal diciannovenne Henri Cornet nel 1904. Ma è anche il più giovane di sempre a vestire la maglia a pois, il più giovane degli ultimi 86 anni a vincere tre tappe, il primo dal 1983 ad aver vinto il Tour all’esordio.

Il bello dei numeri è che si può usarli per raccontare quasi tutto. Tale Ivan Ruthven-Bruijns ha osservato su Twitter che «Pogačar ha preso la maglia gialla alla tappa 20 del 2020, 20 giorni dopo l’altra maglia gialla della sua squadra, alla prima tappa. Vince il Tour a 21 anni, alla tappa 21, il 21 settembre, dopo aver data un minuto e 21 secondi al secondo nella crono decisiva». 

I numeri non mentono mai, ma non sempre dicono qualcosa. Quando abbiamo creato Bidon - ciclismo allo stato liquido, abbiamo pensato sin dall’inizio che i numeri non fossero il nostro elemento prediletto per raccontare il ciclismo. Non tanto perché alcuni di noi coi calcoli non ci sanno fare granché, ma perché a concentrarsi troppo sui numeri si corre il rischio di dimenticare il fattore meno misurabile dello sport: l’umanità. 

Nei ventidue brevi racconti che vi apprestate a leggere (o rileggere) di cifre ne troverete proprio poche, ma potrete immergervi nelle storie dei protagonisti della corsa. Un insieme di sprazzi di umanità raccolti da lontano, davanti al televisore, più distanziati che mai.

C’è spazio per le sfighe di Thibaut Pinot, gli affetti di Julian Alaphilippe, i passatempi di Jérôme Cousin, l’eleganza di Marc Hischi, le lacrime di Sam Bennett, l’essenzialità di Matthieu Ladagnous, l’istinto di Søren Kragh Andersen, il misticismo di Pierre Rolland, la profondità di Richard Carapaz, la delusione di Primož Roglič. 

Un intreccio di storie e sensazioni che non stabilisce alcun record, nessun evento irripetibile, perché fortunatamente l’avventura umana delle corse in bicicletta ci offre l’occasione di raccoglierne ogni giorno.

Quando si trasforma in competizione, il ciclismo è esattamente questo: un costante (dis)equilibrio tra formule ed emozioni, tra calcolo e istinto. Non è un caso che una delle più celebri massime velocipedistiche risalga addirittura ad Albert Einstein: «La vita è come andare in bicicletta: se vuoi stare in equilibrio devi muoverti». 

Il ciclismo è dunque una storia di esseri umani in equilibrio precario ma in costante movimento, che maledicono doppiamente la forza di gravità: sia quando si scorticano scivolando sull’asfalto sia quando si trovano ad affrontare lunghe salite. I ciclisti sperano sempre che Newton si sbagliasse, che in fondo alla discesa non tocchi loro un’altra salita, o qualche volta l’opposto, come nel bizzarro caso di Il’nur Zakarin, che a seconda della direzione in cui imbocca una strada di montagna può diventare scalatore sublime o discesista disastroso.

I corridori non hanno bisogno di Newton per imparare che tutto quel che sale deve anche scendere e viceversa: glielo insegna la strada. Noncuranti dell’inimicizia delle leggi della fisica, ripetono le proprie gesta e le proprie maledizioni corsa dopo corsa, tappa dopo tappa, fuga dopo fuga, caduta dopo caduta. 

È il loro mestiere, spesso la loro passione. In maniera non troppo matematica, potremmo definirla una vocazione.

Filippo Cauz