Definire Tom Pidcock

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    Scalatore da bancone, pistard da divano. Ama il rumore, i bratwurst, dormire e leggere seduto sul water. Ha visto il volto di Dio in tre occasioni: una volta era Joey Baron, le altre due Laurent Jalabert.

Se stai iniziando a leggere questo articolo attirato dal titolo... Ehi, ci sei cascato amico. Non esiste una definizione di Tom Pidcock, se non qualche attributo generico. Maschio, britannico, ventunenne (ancora per quattro giorni). Ciclista? Ecco, ciclista sarebbe formalmente corretto, ma già riduttivo. Non ci sta tutto Pidcock nella ristretta scatola del "ciclista". Come si può mettere limiti a uno che del ciclismo ne ha percorso pressoché ogni sentiero sin dalla più tenera età? Multiciclista, policiclista? Ancora non basta. Nemmeno si potrebbe dire "il più grande talento del ciclismo mondiale": significherebbe avventurarsi in un campo interpretativo mai così ostico come nell'ultimo lustro, quello in cui il destino ha deciso di farsi beffe del nostro sport preferito inondandolo con una pioggia di talenti che non si vedeva da tempo.

Il punto è che nemmeno lo stesso Tom Pidcock saprebbe dare una definizione di se', tanto è lungo il percorso di scoperta che ancora attende un ragazzo che avrà pur cominciato a pedalare a quattro anni, quando la madre gli legava i piedi ai pedali con un laccetto perché continuava a scivolare via, ma che sarebbe opportuno ricordare che è ancora alle prime scorribande tra i grandi. Quasi tutte vincenti, però.

Si prenda ad esempio l'ultimo anno di Pidcock. Ad agosto 2020 domina il Giro d'Italia U23. A settembre corre per la prima volta il mondiale su strada tra gli élite: lo conclude lontano dall'iridato Alaphilippe ma è il primo dei britannici, davanti a colleghi ben più maturi e quotati. A dicembre è, insieme a Wout van Aert, l'unico corridore in grado di battere Mathieu van der Poel nel ciclocross. A primavera passa professionista: vince la Freccia del Brabante e si piazza alla Strade Bianche, alla Freccia Vallone, all'Amstel Gold Race. A maggio esordisce nella Coppa del Mondo di mountain bike: un quinto e un primo posto, eppure non basterebbe per qualificarsi per le Olimpiadi, se non fosse per un ripescaggio giunto grazie ai piazzamenti del rumeno Vlad Dascalu (oggi 7°, ma medaglia d'oro della gratitudine da parte di tutti gli appassionati). Il 2 giugno viene investito in allenamento e si rompe la clavicola in cinque pezzi. 54 giorni dopo è al via della prova olimpica: parte dall'ultima fila e dopo 20" è in quarta posizione. Al traguardo, naturalmente, primo.

Vien da sé l'impossibilità a inquadrare tutto questo in una parola. Anche perché definire Tom Pidcock oggi sarebbe assolutamente inutile. Se pure coniassimo un neologismo sarebbe effimero, destinato a cambiare più velocemente di un DPCM. Rappresenterebbe un vano sforzo per predisporre strumenti per il futuro, quando Tom Pidcock è il presente. Muta con il tempo, vi si adatta, si concretizza regolarmente al momento giusto, al posto giusto. Nei suoi primi giorni da fenomeno, quando correva tra gli juniores, qualcuno gli chiese cosa avrebbe fatto da grande. Tom rispose che lo stava già facendo: stava correndo in bicicletta, stava vincendo. Non ha ancora smesso di farlo, e si direbbe che non abbia ancora finito di diventare grande.

 

Testo: Filippo Cauz
Foto in copertina: Team GB

 

 

 

 

 

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