[Paris-Roubaix 2023] Soprattutto gambe

Un giorno qualcuno più giovane di noi chiederà conto dei nostri capelli grigi e ci sottoporrà la temuta domanda: chi era più forte tra Van der Poel o Van Aert? E noi, risultati alla mano, dovremo dire: Van der Poel. Per poi aggiungere un attimo dopo: Ma che spettacolo era Van Aert.

Cercheremo così di rigettare la semplificazione dei palmares quando vengono snocciolati e basta, spiegando che la bellezza di essere testimoni del ciclismo di quegli anni – di questi anni – si annidava soprattutto nei risvolti della rivalità che più di ogni altra lo innervava; nelle dinamiche che ci portarono, un giorno di primavera del 2023, a considerare che il crescente strapotere di Van der Poel non era un bene per nessuno, forse nemmeno per lui. 

Non c’è Van der Poel senza Van Aert, e una vittoria di Van der Poel quando Van Aert è assente, o non è al suo meglio, o fora nel momento chiave, è come se difettasse di un ingrediente, un sapore al quale per anni ci siamo fatti la bocca. Lo stesso Van der Poel, sorriso angelico e trofeo tra le mani, non ha nascosto il suo dispiacere per un avversario che avrebbe preferito anticipare sulla linea del traguardo piuttosto che ritrovare in foto sullo sfondo, con un giro di pista di differenza e un Philipsen esultante di mezzo. 

Nell'erba del velodromo André-Pétrieux si chiude così – almeno per qualche mese – la stagione degli eterni duellanti, dopo cinque mesi a sfidarsi e provocarsi, a innaffiarsi reciprocamente i germogli fino al culmine della primavera, quando il sole bacia un raccolto che per uno è sovrabbondante e per l'altro ha il sapore aspro dell’incompiuto.

Tra la Milano-Sanremo di tre settimane fa e la Roubaix di oggi, passando per il Fiandre, il disequilibrio interno alla Grande Rivalità Del Ciclismo Contemporaneo si è dilatato: Van der Poel è arrivato a quota quattro Monumenti e, come ha scritto Alexandre Roos sull'Équipe, sta progressivamente facendo di Van Aert il suo Poulidor, ribaltando un DNA famigliare che a questo punto permane nei tratti del viso e poco più. C’è riuscito anche nella domenica di Pasqua, una domenica all'aria aperta, una domenica di sorprese, di fortune alterne e di gambe – soprattutto di gambe.

Quando – era il 1896 – Théodore Vienne e Maurice Perez decisero di promuovere il nuovo velodromo di Roubaix con una corsa ciclistica che portasse i corridori a giocarsi la volata nell'ovale dopo essere partiti dalla capitale francese, pensarono che il giorno giusto in cui inserire la loro gara fosse la domenica di Pasqua, la meno gradita dai vertici ecclesiastici che minacciavano scomuniche e dannazioni infernali. Lo stratagemma architettato dai due fu promettere che avrebbero organizzato una messa alle 4 del mattino, prima che i corridori partissero. La cerimonia non avvenne mai, ma rimase l'Inferno, quello con cui la Roubaix è ancora identificata.

Un inferno di pietre lisce e sporche, trentasei per metro quadro, su cui oggi sono inciampati tra gli altri Kasper Asgreen (tra i favoriti) e Dylan van Baarle (vincitore l’anno scorso), Dusan Rajovic (caduto due volte) e Cériel Desal (finito in un fosso), Pavel Bittner (20 anni e 162 giorni), e Joshua Tarling (19 anni e 53 giorni), Peter Sagan (all’addio) e Derek Gee (all’esordio), le cui ruote leggerissime si sono accartocciate al centro della Foresta di Arenberg, rivelandosi d’un tratto per quello che in fin dei conti sono: sottilissimi strati di carbonio e caucciù che dividono una bicicletta dal duro suolo.

Nel mezzo c’è solo aria, aria sospesa, aria che fugge e lascia a piedi Laporte prima e Van Aert poi, proprio all’uscita da Carrefour de l’Arbre, quando tutto lasciava intendere che oggi Wout, il primo dei favoriti a muoversi (a più di 100 chilometri dal traguardo, prima ancora della Foresta) ne avesse abbastanza da dar filo da torcere a Mathieu.

Come sarebbero andate le cose se Van Aert non avesse forato? E se poco prima il risorgente Degenkolb non fosse finito nell’erba, stretto tra la festiva esuberanza di Philipsen e le manovre al limite – perennemente al limite – di Van der Poel? E se lo stesso Van der Poel, quando era già tutto solo eppure continuava a sfidare le leggi della fisica, avesse pennellato appena peggio quell’innocua curva nel finale e fosse incappato nella barriera gialla a bordo strada, terminando la sua corsa non sul cemento del velodromo ma tra le giacche primaverili dismesse dai tifosi? 

Potremmo ragionarci su a lungo, ma è esercizio destinato per sua natura al fallimento. Come chiedersi se sia nato prima l’uovo (di Pasqua) o la gallina, dire chi sia il più forte tra due campioni generazionali, interrogarsi su cosa abbiamo fatto di buono per meritarci cotanta grazia ciclistica, o fare la classifica di quel che occorre a un atleta per diventare una leggenda del proprio sport. Smaltito il fiatone della Roubaix più veloce di sempre negli anni del ciclismo più veloce di sempre, ritoccato un curriculum da divinità del ciclismo la cui ricorrenza si celebra ogni volta che si attacca un numero sulla schiena, Mathieu van der Poel offre la sua soluzione: «Per vincere servono fortuna e buone gambe, e io oggi le ho avute entrambe».

Testo: Leonardo Piccione / Filippo Cauz
Foto in copertina: Tornanti.cc

 

 

 

 

 

 

 

 

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