Il fascino discreto dell'improbabile

 

"Vie di fuga - Sogni e strade di ciclisti che se ne vanno" arriva oggi in libreria. È il nostro omaggio a tutti i corridori che preferiscono trascorrere i loro pomeriggi in fuga, sfidando un destino che appare segnato.

Negli ultimi giorni vi abbiamo già anticipato qualcosa di questo nuovo libro. Qui trovate l'indice completo del libro, che include tra gli altri contributi il diario dal Tour de France 2020 firmato da Alessandro De Marchi.

Oggi vi regaliamo la prima parte dell'introduzione alla raccolta, scritta da Leonardo Piccione. Si intitola "Il fascino discreto dell’improbabile", ed è solo un piccolo scatto in testa al gruppo: di tutto il resto ne parliamo nel prosieguo del libro. In fuga.

 

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Simile per implicazioni logiche a quello che proverbialmente contrappone uova e galline, esiste nel ciclismo un paradosso che induce a chiedersi se siano nate prima le corse in bicicletta o le fughe.

Discende tale dubbio dall’evidenza che ciascuna competizione individuale su due ruote sia, in ultima analisi, un tentativo di distaccarsi dalla massa dei propri avversari – ovverosia di sopravanzarli e dunque, a un certo punto, di sfuggire a tutti loro – ma soprattutto dalla circostanza che vuole che la prima corsa della storia del ciclismo disputata in linea (cioè partendo da una località e giungendo a un’altra) si sia decisa al termine di una lunga, lunghissima fuga.

La prima fuga della storia del ciclismo, insomma, si è realizzata contestualmente alla prima corsa della storia del ciclismo, consacrando nei fatti un legame teorico talmente stretto da non necessitare in verità di troppe dimostrazioni.

Quando – era l’alba del 7 novembre 1869 – si lanciò nell’attacco solitario che, dopo 123 chilometri e più di dieci ore, l’avrebbe portato da place de l’Étoile, Parigi, fino al centro di Rouen, il ventenne inglese James Moore diede compimento al condiviso assunto secondo cui non può esistere ciclismo senza fughe.

In quella seminale Parigi-Rouen del 1869, disputata senza che i partecipanti potessero farsi trainare da cani né issare vele di alcun tipo sul proprio velocipede (lo specificava il regolamento), andò in scena la prima di un’interminabile serie di variazioni sul tema, reiterate con alterni successi fino ai giorni nostri, tutte concordi nel ribadire che, quando non si pedala per necessità, si pedala per fuggire.

Tutte le volte in cui la bici non si limita a svolgere la sua funzione primigenia di mezzo di trasporto, essa finisce per assolvere a un compito più arioso e dirompente.

Fateci caso: è straordinaria la quantità di ciclisti di tutte le età e tutti i livelli che, ogni qual volta viene loro chiesto cosa ci trovino di significativo nel pedalare, istintivamente rispondono associando la pratica del loro sport – e, per metonimia, lo strumento stesso con cui lo praticano – alla desiderabile condizione della libertà.

Come un concetto alto, sfuggente e indefinibile come la libertà possa abitare nell’asetticità metallica di un telaio, nella circolarità vulcanizzata di un copertone e in quella dentata di un pignone, trovando in essi la concretezza di cui le idee alte il più delle volte difettano, questo è un mistero che non abbiamo l’ambizione di sviscerare in questo libro, il quale cercherà invece di indagare alcune delle forme in cui la peculiare declinazione di libertà che è la fuga si realizza nello sport del ciclismo.

Perché se chiunque attraverso l’azione del pedalare ha l’occasione nel suo piccolo di fuggire (da un luogo, da un pensiero, da una circostanza, da una responsabilità), per i ciclisti professionisti la fuga costituisce un’esigenza ancora più irrinunciabile: come detto poc’anzi, essa è un modo – il primo e più immediato – per provare a vincere una corsa.

Per i corridori privi del talento proprio dei campioni, andare in fuga non è solo il primo, ma anche l’unico modo possibile per vincere. In questo senso la fuga, democratico dileguarsi per affermare la propria esistenza attraverso un’assenza, attua una sorta di ridistribuzione di vittorie, e quindi di ricchezza.

 

Leonardo Piccione

 

 

 

 

 

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