Senzamura

Articolo pubblicato la prima volta il 21 marzo 2020.

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La prima volta, alcune estati fa, chiedemmo a Gianni Mura perché continuasse a seguire il ciclismo. Lui era alla vigilia del suo trentesimo Tour de France da inviato; noi, minuscoli, alla vigilia del lancio del nostro sito internet. Era un’occasione speciale, e avevamo un desiderio speciale: cominciare intervistando lui. Ci venne incontro alla macchinetta del caffè, in redazione, poi ci portò su un balconcino: doveva fumare.

Seguirono due ore di chiacchiere e di battute, e di consigli, e di dubbi su tante cose ma non su quello che il ciclismo può trasmettere. Gianni Mura quel giorno ci disse che tornava un’altra volta al Tour perché «è come uno che ha dato il primo bacio al ponte della Ghisolfa, e allora ogni tanto ci torna al ponte della Ghisolfa. Io torno al Tour».

Ce lo ha ripetuto altre volte, quanto gli piacesse seguire il ciclismo. Forse era il suo modo di incoraggiarci, ma più probabilmente era così e basta: gli interessavano tanti mondi (il calcio, il vino, i ristoranti, i gialli, l'enigmistica…), ma con le biciclette si divertiva «pazzamente».

L’ultima volta che l’abbiamo incrociato, allo scorso Giro d’Italia, era la tappa che passava per San Zenone Po, dove era venuto per commemorare Gianni Brera, il maestro che gli aveva insegnato l’arte della prosa diretta, senza “cuori oltre l’ostacolo”, adatta ai tempi. Poco prima dell’arrivo della tappa, entrò in sala stampa. Fece un giro di saluti tra i colleghi, poi prese comodamente posto, senza nessun altro intorno, per godersi la volata in santa pace, pensare magari a quale storia potesse sorgere dalla vittoria di Caleb Ewan, o dalla maglia rosa di Valerio Conti. O dagli odori del buffet (che quel pomeriggio era ottimo e rustico, come se l'arrivo di Mura fosse nell'aria), o dai colori del paese. O da tutto questo insieme.

Perché Gianni Mura ci ha insegnato che il ciclismo offre sempre qualcosa a chi ha voglia di narrare, e che dalle grandi corse possono nascere grandi racconti. Spiegò una volta che il suo compito era assorbire ogni giorno tutto quello che gli accadeva intorno e poi strizzarlo come una spugna dentro la sua macchina da scrivere. Il ciclismo era per Mura quello che la scienza era per Calvino: una “riserva di caccia per le immagini”.

Sarebbe stato bello oggi poter raccontare una corsa, la Milano-Sanremo per esempio, non per imitarlo – non sarebbe possibile – ma per celebrarne in qualche modo la passione più grande. Invece in questo primo giorno di primavera ci ritroviamo Senzamura e pure senza ciclismo, all’inizio di un tempo che speriamo breve, in un mondo in cui Gianni Mura, ne siamo convinti, non si sarebbe divertito granché.

«Una volta iniziai un’intervista ad Alfredo Martini chiedendogli “Se io dico ciclismo cosa ti viene in mente?” E lui disse: libertà e speranza. Erano risposte giuste allora, ma adesso non so… Libertà sì; speranza un po’ ammaccata forse. Però si, credo che alla fine stiano ancora in piedi tutt’e due».

(“Sulla strada del primo bacio”, l'intervista completa a Gianni Mura è qui: bidonmagazine.org/articoli/sulla-strada-del-primo-bacio).

 

 

 

 

 

 

 

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