Qualcuno cerca di mettere a fuoco le nostre facce, qualcun altro sbircia dentro la nostra auto in cerca di dettagli rivelatori. Molti scattano foto al nostro passaggio, chissà se le rivedranno mai, forse le hanno già cancellate.

La prima conseguenza dell'abbuffata di luce della prima giornata di sole ininterrotto di questo Giro d'Italia è la fatica degli occhi ad adeguarsi alla penombra del Palapaternesi di Foligno. Solo dopo qualche minuto comincia a emergere qualche dettaglio dal fondo apparentemente buio.

L'addetto alla seggiovia di Campo Felice ci aveva avvisati: «Se la cabina si ferma non spaventatevi, ripartirà da sola dopo qualche minuto». Adesso che siamo sospesi sopra l'ultimo tratto di sterrato - il percorso di gara un impasto beige sotto di noi - ripenso al suo avvertimento.

C'è un silenzio totale e indiviso nell'abitato di Guardiaregia, all'inizio della lunga salita di Bocca della Selva. È la prima sosta che facciamo. "Un bar dovrà pur esserci", penso, assalito dall'astinenza dal nettare che rende possibile la mia sopravvivenza al Giro, che per me è tante cose ma soprattutto quello che succede tra un macchiato e il successivo lungo.

C'è un incolonnamento sull'A14, direzione Pescara. La tappa è partita; bus, ammiraglie e suiveur in automobile hanno lasciato i corridori alle loro consuete divagazioni tra statali e provinciali e optato per l'autostrada, così da anticiparli verso Termoli. 

 

Ai 50 dalla fine, quando ormai ero staccato e sapevo di aver perso la maglia, c’è stato un momento in cui mi sono ritrovato completamente da solo. C’era solo una moto davanti a me, e nient’altro.

In quei cinque minuti da solo ho riordinato i pensieri e realizzato quello che è successo in questi due-tre giorni. Abbiamo fatto qualcosa di bello, abbiamo scritto un po’ di pagine di ciclismo che credo rimarranno nel cuore di tanti, di sicuro nel mio.

Se n'è accertato: stavolta non lo svernicerà nessuno, né a destra né a sinistra. Solleva entrambe le braccia dal manubrio, forse troppo bruscamente, per un attimo sembra barcollare, è troppo stanco per celebrazioni elaborate. Rimette le mani sul manubrio

Dal lungomare di Cattolica sale una brezza discreta, piacevole, leggera al punto che gli ombrelli rosa sospesi tra gli alberi di Via Fiume nemmeno accennano a ondeggiare. Sta per arrivare il Giro. Si attende in piedi sui marciapiedi, si chiacchiera seduti tra i tavolini dei bar. Uno scroscio di pioggia, il sole che fa la sua comparsa, sorrisi e gelati.

Piove forte sull’Appenino emiliano. Dalla cura ricostituente che è il Giro sembra sia stata momentaneamente sospesa la somministrazione di vitamina D. In fuga ci sono il danese Juul-Jensen, di nome Christopher, e l’estone Taaramäe, di nome Rein. Mi sta simpatico Taaramäe. 

Una stazione di servizio emerge come un miraggio dalla bruma. Due aironi banchettano in una risaia, un altro è a mezz’aria. Un lungo rettilineo, un restringimento, un semaforo, un paese. Scuole negozi bar. Un viale in lastricato. Poi di nuovo il nastro d’asfalto, un altro, forse un’appendice di quello di prima.

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